“L´Iraq costa più del Vietnam”

Per la missione ogni mese 5,6 miliardi di dollari. Il 53% degli americani disapprova le scelte della Casa Bianca
Dossier sulle spese di guerra, ai minimi la popolarità di Bush

È salatissimo per l´America il prezzo della guerra in Iraq: nel conto delle vite umane, naturalmente, ma anche in termini finanziari. Ieri due istituti di ricerca – l´Institute for Policy Studies e Foreign Policy in Focus – hanno diffuso un rapporto intitolato “Il pantano iracheno”, chiarendo che l´intervento in Mesopotamia costa più della guerra nel Vietnam. Depurati dall´inflazione, i bilanci mostrano che la missione in Indocina costava 5,1 miliardi di dollari al mese, mentre Iraqi Freedom costa al contribuente americano 5,6 miliardi: circa 186 milioni di dollari al giorno, oltre 150 milioni di euro.
Proprio questo dato permette di capire perché due elementi non omogenei, la crescita del prezzo della benzina e l´aumento del conto dei morti in Iraq, hanno contribuito a minare il sostegno a George W. Bush, sceso ormai nei sondaggi ai minimi storici. Oltre un americano su due (il 53 su cento) disapprova le decisioni presidenziali. A sostenere il presidente resta il 45 per cento degli statunitensi, dice l´ultima rilevazione Abc-Washington Post: pochi, sempre meno, per una Casa Bianca abituata a volare sull´entusiasmo nazionale e sui richiami patriottici. Subito dopo l´11 settembre, la popolarità di Bush sfiorava il 90 per cento: ma anche solo rispetto al gennaio scorso, l´amministrazione ha perso per strada sette punti percentuali.
Ancora più critica è l´opinione pubblica sull´Iraq: a contestare la linea della Casa Bianca è il 57 per cento degli intervistati. Uno stato d´animo che nasce dalla tragica conta dei militari caduti in Iraq – ieri il bilancio ufficiale ha raggiunto quota 1879 – e continua a nutrire un´opposizione pacifista sempre più agguerrita. Restando in tema di confronti storici, il paragone col Vietnam è doloroso anche per i giornalisti: secondo Reporter senza Frontiere, il conto dei cronisti uccisi in Iraq dal marzo 2003 è arrivato a 66, superando quindi i 63 morti in Indocina fra il 1955 e il 1975.
A complicare le cose ci si mette anche l´uragano Katrina, che ha imposto un aumento del prezzo dei carburanti. Per gli automobilisti americani, da sempre, il costo della benzina è un “punto sensibile”: se aumenta, viene visto come un segnale che qualcosa non va nella politica. Insomma, alle colonnine delle stazioni di servizio si fa largo un ragionamento in questi termini: “Se non riusciamo neanche a tener basso il costo del gallone di super, per che cosa vanno a morire i nostri ragazzi in Iraq?”.
Ieri George Bush ha voluto paragonare lo sforzo militare in Medio Oriente alla lotta contro il nazifascismo nella Seconda guerra mondiale. Parlando nella base navale di North Island, davanti alla fiammante portaerei Ronald Reagan, il presidente ha celebrato i 60 anni dalla vittoria contro il Giappone paragonando la guerriglia irachena ai soldati del Terzo Reich. «Anch´essi falliranno», ha detto.
Ma anche i richiami alla crociata contro il terrorismo rischiano di perdere efficacia: Richard Clarke, ex capo dell´antiterrorismo della Casa Bianca, oggi fra le voci più critiche dell´amministrazione Bush, ha contribuito a smontare un altro pezzo dell´equazione guerra=sicurezza. In una conferenza stampa alla New America Foundation, Clarke ha fornito i risultati dei suoi calcoli sugli attacchi terroristici nell´ultimo periodo. Nei tre anni successivi al 2001, quindi in piena offensiva anti-terrore, nel mondo c´è stato il doppio degli attentati registrati nei tre anni precedenti. E questo ovviamente senza contare quello che succede in Iraq. Sul Tigri, dice Clarke, arrivano solo pochi combattenti stranieri: raggiungono l´Iraq per addestrarsi e poi tornano in patria. Secondo l´ex responsabile dell´antiterrorismo Usa, «ci sono più membri dei network jihadisti fuori dell´Iraq, proprio a causa della presenza americana da quelle parti».