L’iperdemocrazia delle primarie

Un mio articolo apparso giovedì scorso ha scatenato delle obiezioni di un certo interesse che meritano di essere discusse. Quando afferma che un possibile incontro con i moderati richiede, come sua condizione indispensabile, una identità non effimera dei soggetti che stipulano l’intesa di governo, Valentino Parlato pone il problema reale, individua cioè il grande buco nero della sinistra. Il vuoto identitario, che qualcuno osannava come una grazia divina concessa per abbandonare il Novecento, in realtà è un immane limite che condanna ad esitazioni preoccupanti nell’agire. È vero, senza identità non c’è neppure realismo politico e grande abilità di manovra.
Franco Giordano, infastidito per «i giochi dentro il palazzo», invita a lasciare da parte Machiavelli e il suo crudo realismo per rileggere invece Gramsci. Perché no? Riprendiamolo pure in mano il Gramsci che riflette in modo geniale, e quindi ancor oggi molto istruttivo, sulla crisi delle democrazie europee, sulle tendenze alla personalizzazione (anche nei regimi parlamentari c’è «una personalità che esercita una funzione bonapartista») e sulla caduta dei regimi costituzionali.
Quello che Gramsci scrive per fissare il senso della crisi della politica in Italia potrebbe essere tranquillamente recuperato per raccontare anche l’oggi: «La crisi si presenta praticamente nella sempre crescente difficoltà di formare i governi e nella sempre crescente instabilità dei governi stessi: essa ha la sua origine immediata nella moltiplicazione dei partiti parlamentari, e nelle crisi interne permanenti di ognuno di questi partiti». C’è davvero un eterno ritorno dell’eguale: corruzione, ingovernabilità, nomadismo parlamentare, frammentazione appartengono alla lunga durata della storia d’Italia.
Ma seguiamo ancora Gramsci. Le coalizioni si allestivano e si rompevano in aula e «ogni elezione sembrava essere quella per una costituente e nello stesso tempo sembrava essere quella per un club di cacciatori». Proprio come nella seconda repubblica: si oscilla tra comitati di salute pubblica con tutti dentro per salvare la democrazia e corse solitarie in ossequio a una vocazione maggioritaria. Attenzione a non cogliere i segnali inquietanti di certe ricorrenze nella manifestazione della crisi.
I fenomeni di crisi che esplosero nel secolo scorso portarono al fascismo. Alla radice della soluzione autoritaria per Gramsci c’è la debolezza dei partiti in senso moderno. La mancanza di grandi partiti per Gramsci significa «scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria nella vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti, corrompendone, assorbendone i pochi uomini indispensabili». Sembra la fotografia esatta dell’Italia di oggi, senza più partiti niente più classe dirigente e quindi solitudine politica estrema delle classi subalterne. Questa situazione di crisi della rappresentanza nel Novecento produsse il capo carismatico.
Contrariamente alla seduzione che il carisma, la leadership, il partito personale esercitano oggi anche (ed è incredibile per una tradizione che pure dovrebbe essere stata istruita dal marxiano 18 brumaio) a sinistra, per Gramsci si tratta di brutte cose (il carisma gli sembra appartenere ad «una fase politica primitiva»), nient’affatto cavalcabili con un carisma magari tinteggiato di rosso. L’ossessione di Gramsci è proprio quella di afferrare il nesso tra la crisi della democrazia e la puntuale apparizione del carisma. «Situazione delicata e pericolosa» è per lui quella che si apre quando i partiti perdono la rappresentanza sociale e appaiono «uomini carismatici».
Il movimento operaio perse non perché non contrappose al carisma eversivo nero un cesarismo sovversivo colorato di rosso. Per Gramsci il nodo era proprio il partito assente. Egli non disdegna il ruolo della élite e la funzione della leadership («un capo non ambizioso non è un capo, ed è un elemento pericoloso per i suoi seguaci»). Ma la grande ambizione, che «è moralmente apprezzabile» e costituisce la grammatica dell’agire politico, non comporta affatto il passaggio dal partito al capo carismatico. Occorre sempre per Gramsci una mediazione tra il capo e la massa: «Il capo politico dalla grande ambizione tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa». Con la sua «demagogia superiore» crea uno stato maggiore, un gruppo dirigente, una crescita diffusa della massa ed è per questo il contrario del partito personale. Il partito per Gramsci è il destino della politica. Per questo «i partiti possono presentarsi sotto i nomi più diversi, anche quello di antipartito e di negazione dei partiti». Il giudice, il comico, il governatore tutti, in nome della ostilità contro i partiti, si fanno poi un loro partito su misura. Una caricatura di partito.
Gramsci è convinto invece che «non può esserci elaborazione di dirigenti dove manca l’attività teorica, dottrinale dei partiti». Attività culturale, non narrazione, organizzazione e non cartelli o fabbriche a supporto di un capo. Ciò è indispensabile anche quando «il linguaggio politico è diventato un gergo» e la radio sostituisce il partito nel «normale governo dell’opinione pubblica».
Proprio la radio per Gramsci (figuriamoci cosa avrebbe colto nella video politica odierna) può «suscitare estemporaneamente scoppi di panico o di entusiasmo fittizio che permettono il raggiungimento di scopi determinati, nelle elezioni, per esempio». In questi contesti di politica mediatizzata agitare il carisma e la personalizzazione senza disporre delle armi di fuoco del cavaliere è una condotta da aspiranti suicidi.
Contro i partiti puramente parlamentari ed asfittici di oggi le primarie sono la ritrovata linfa vitale di una partecipazione di massa? Mah. Toaldo e Diletti non mi convincono proprio. Le primarie sono una maldestra caricatura della politica americana. Esse sono utilizzate senza le condizioni istituzionali (l’elezione diretta di una carica monocratica: siamo per fortuna, o meglio grazie al referendum costituzionale già dimenticato del 2006 che bocciò il premierato assoluto, ancora in un regime parlamentare) e senza le condizioni politiche (un assetto fortemente frantumato e coalizionale e nient’affatto bipartitico).
Il manifesto è stato l’unico giornale a riportare il costo sostenuto dai diversi candidati nelle tanto celebrate primarie di Milano. I primi due candidati meglio piazzati hanno speso 200 mila euro ciascuno. Il terzo classificato 67 mila euro e il quarto, poverino, poco più di mille euro (e forse così si capisce meglio il risultato misero ottenuto). Strano che il peso del denaro corrisponda al numero delle schede.
Sulle primarie, sul ruolo dei media, dei sondaggi e dei raccoglitori dei fondi, sulla retorica della iperdemocrazia dei gazebo mi limito a riportare quanto ha scritto un liberale americano, Fareed Zakaria: «Se i partiti continueranno a perdere importanza, essere ricchi e famosi diventerà la strada più sicura per conquistare un incarico di prestigio». I gazebo, temo, non c’entrano proprio nulla con la lotta indispensabile per il riscatto dei precari e dei lavori ipersfruttati.