“L’integralismo è figlio dell’Occidente”

INVIATA A PESHAWAR (PAKISTAN)

Peshawar (letteralemente città di frontiera), fondata 2.500 anni fa, crocevia delle tribù che vivono al confine tra l’Afghanistan, il Pakistan, le repubbliche centrasiatiche e la Cina, oggi ben riassume gli elementi che potrebbero far implodere il Pakistan. Centro di smistamento del traffico di armi e di droga, la città è stata profondamente trasformata dall’arrivo in massa di profughi afghani dopo l’invasione sovietica. La fuga non si è però arrestata con il ritiro dell’armata rossa, è continuata durante gli scontri tra mujahidin e taleban, dopo l’instaurazione del regime del terrore da parte dei seguaci di mullah Omar, e continua in questi giorni per sfuggire alla minacciata rappresaglia Usa dopo gli attacchi terroristici di New York e Washington. La città più afghana del Pakistan ospita oltre 1 milione di profughi, molti dei quali sono però isolati nei campi dei rifugiati che circondano la città, che si mescolano ai quasi 2 milioni di abitanti originari, anch’essi pashtun. Gran parte della Provincia di frontiera del nord-est (che però i nazionalisti chiamano Pakhtoonistan) e del confinante Beluchistan sono infatti popolati da pashtun, una etnia che vive a cavallo tra Pakistan (30 milioni) e Afghanistan (20 milioni) a causa della separazione tracciata dal colonialismo inglese con la Linea Durand, nel 1893. Eredità del colonialismo, la linea Durand è all’origine della questione pashtun, da sempre fonte di tensione tra Pakistan e Afghanistan.
Finora il governo di Islamabad ha mantenuto la questione sotto controllo grazie alla forte influenza esercitata sui pashtun afghani e al sostegno garantito ai taleban, tutti di etnia pashtun. Tra le aberranti azioni portate avanti dai taleban nel 90% dell’Afghanistan da loro controllato vi è anche la pulizia etnica a favore dei pashtun e contro le altre etnie: tagika, uzbeka, hazara, etc, che invece sono rappresentate dall’opposizione dell’Allenza del nord. Per una soluzione del conflitto afghano è comunque imprescindibile tenere presente la componente pashtun, che rappresenta oltre il 40% degli afghani, tanto è vero che le ultime ipotesi di soluzione puntano molto su una transizione guidata dal deposto re Zahir Shah, non solo perché è un uomo amato da molti, anche dall’opposizione democratica, ma perché è pashtun. Alla tradizione pashtun fa ricorso anche la proposta sostenuta da molti afghani in esilio di ritornare alla Loya Jirga (grande consiglio o assemblea) per risolvere il conflitto che dilania il paese. Si tratta di un sistema consultivo usato per oltre 1.000 anni dagli afghani per risolvere le loro dispute intertribali o all’interno delle stesse tribù. Non tutte le Loya Jirga si sono svolte pacificamente, nel 1987 trenta persone rimasero uccise, e non è l’unico caso di violenza registrato. Comunque l’ultima Loya Jirga ritenuta valida è quella convocata dal re Zahir Shah, nel 1964, con 455 delegati comprendenti rappresentanti di tutte le etnie, per la ratifica della costituzione che apriva il cammino all’introduzione di una democrazia parlamentare. Ora proprio l’ottantaseienne re potrebbe essere chiamato a presiedere una nuova storica Loya Jirga per far uscire il paese da ventidue anni di guerra. Ma la strada è tutt’altro che facile e il risultato non è assolutamente scontato. Anche perché l’uso della Jirga va contro l’ideologia degli ultraintegralisti che ne hanno abolito l’uso e che si oppongono anche al ritorno del re.
I pashtun del Pakistan, estremamente sensibili alla situazione afghana, sono tutt’altro che uniti e non solo per la loro divisione in numerose tribù, ma anche per i diversi schieramenti politici di appartenenza. I taleban godono dell’appoggio delle madrasa, scuole coraniche nelle quali sono cresciuti, e dei partiti islamisti pronti a lanciare la jihad in caso di attacco americano contro Osama bin Laden e i suoi protettori di Kabul. Ma sul fronte opposto si schierano i partiti nazionalisti pashtun, ostili al governo di Islamabad, ma anche e soprattutto ai mullah afghani. In cifre, questa la collocazione dei pashtun: 60% non politicamente schierati, 40% appartenenti a partiti, di cui il 10% islamisti, secondo l’avvocato Lateef Afridi, che abbiamo incontrato al tribunale di Peshawar.
Tra i sostenitori della Jirga come soluzione dei problemi afghani, vi è anche Haji Mohammad Adeel, uno dei leader dell’Awami national party (Anp, partito nazionalista pakhtoon), partito storico dei pashtun, fondato da Abdul Ghaffar Khan, prima della partizione nel 1947, periodo nel quale aveva collaborato con il Congress party indiano. Morto il fondatore, il partito è ora diretto da Begun Nasim Wali, moglie del di lui figlio. Un segno di laicità, anche se il fatto che le decisioni vengano prese sempre dentro la famiglia ha provocato una scissione, come sottolinea Lateef Afridi che ha abbandonato il partito a favore della scissione, il National Awami party.
Convinto oppositore dei taleban e di tutti i mujahidin, il leader dell’Anp, Haji Mohammaf Adeel, che abbiamo incontrato nella sua villa di Peshawar, sostiene che non tutti gli afghani sono con i taleban, altrimenti i profughi sarebbero tornati nel loro paese, invece continuano a fuggire. “Hanno paura dei taleban, Kabul era più moderna trent’anni fa” e ricorda quando era stato ospite del re per un incontro musicale. Sono in molti a ricordare i tempi in cui dai paesi vicini si andava a Kabul per le vacanze, per seguire concerti e altre attività culturali. In questa crisi, l’Anp non è contrario alla scelta fatta dalla giunta militare di schierarsi contro il terrorismo, del resto, Haji Adeel che considera Musharraf un dittatore per aver sciolto il parlamento, ritiene che ora “non c’era altra scelta e se ci fosse stata l’Assemblea nazionale avrebbe approvato la stessa decisione, ma in questo caso avrebbe comportato anche una lotta contro i mullah”. Il leader nazionalista è però preoccupato per la sorte degli afghani e sostiene che “la guerra non è la soluzione, noi pensiamo che ci debba essere il dialogo prima della guerra e soprattutto bisogna fare pressione sui taleban”.
Ma, chiediamo, se ci fosse un attacco all’Afghanistan, il suo partito aderirebbe alla jihad lanciata dagli islamisti? “I pashtun sono, caso unico, musulmani al 100%, ma io sono un musulmano liberale non fondamentalista e poi quelli che predicano la jihad sono personaggi pieni di soldi che mandano la gente allo sbaraglio e provocano solo sofferenze. Perché bin Laden non lancia la jihad contro l’Arabia saudita?”. Eppure il suo partito è nazionalista, e questa potrebbe essere l’occasione per la riunificazioni dei pashtun. “Non vogliamo spartizioni – ci risponde – non vogliamo l’indipendenza ma solo un’autonomia per il Pakhtoonistan in uno stato federale, come in Europa, poter attraversare le frontiere senza restrizioni”, conclude Haji Mohammed Adeel. Haji Ghulam Ahmad Bilour concorda, ma non nasconde che il Pakhtoonistan resta il suo sogno. Pur non essendo pashtun è il principale finanziatore del partito Anp. Un ricco uomo d’affari, tre volte deputato e una volta senatore, ha passato sette anni in carcere ai tempi di Zia ul Haq e di Bhutto. Su un caminetto della fastosa villa in cui ci riceve, si nota la foto del figlio trentenne, Shabir Ahmed Bilour, ucciso dai rivali politici nella campagna elettorale del ’97. Hamadullah, l’assistente di Bilour, ricorda quando Osama bin Laden è arrivato a Peshawar nel 1992, portato dalla Cia. “Tutti gli occidentali sono responsabili per quello che è successo in Afghanistan, gli Stati uniti erano venuti qui per avere una rivincita dopo la sconfitta in Vietnam” commenta. “Tutta colpa degli Usa e dell’Europa, gli fa eco Bilour, perché quando l’Urss si è ritirata hanno permesso che un uomo come Najibullah, nazionalista e laico, fosse ucciso e hanno portato al potere i fondamentalisti. Questo è il risultato: con Najibullah non ci sarebbe stato né Osama bin Laden, né terrorismo”. Allora eravate per la presenza sovietica in Afghanistan? No, l’abbiamo combattuta. Il nostro partito è nazionalista, laico e progressista – la nostra presidente è una donna, afferma orgoglioso -, ma non comunista”. E poi lamenta le discriminazioni economiche subite dalla Provincia della frontiera di nord-ovest: povera, senza industrie, l’unica risorsa è il tabacco, le imposte vengono trattenute in gran parte dal governo centrale e i giovani sono costretti ad emigrare. E anche quelle politiche: la provincia è scarsamente rappresentata in parlamento, quando c’è, perché l’assemblea è stata sciolta con il golpe di Musharraf, nel 1999. “Musharraf ha cercato di distruggere il nostro partito, ma
non c’è riuscito”, conclude Haji Ghulam Ahmad Bilour. Per l’avvocato Lateef Afridi Musharraf è invece un uomo liberale, anche se, ammette, “oggi i partiti laici non sono nella posizione di poter parlare apertamente”. Per Afridi, comunque, la soluzione della questione afghana passa attraverso l’espulsione di tutti gli stranieri che si trovano nel paese, quelli che vi sono andati per combattere o addestrarsi, compresi i pakistani. E bin Laden? Può essere consegnato a un paese terzo che possa garantire un processo equo, ma prima occorrono le prove, sostiene l’avvocato. Ed è una posizione condivisa da molti.