L’insegnamento di Giovanni Pesce: la sconfitta come elemento formativo per la lotta ideale

Leggendo, o rileggendo, le pagine di memorie di Giovanni Pesce, il mitico comandante “Visone” della guerra partigiana dei GAP, non si può fare a meno di rimanere profondamente colpiti dalla sua eccezionale tempra umana e politica. Quest’uomo così lucido, dal piglio fermo ma allo stesso tempo dalla incredibile serenità di carattere, ha ancora oggi molto da insegnare a chiunque voglia interrogarsi sulle vicende del passato così come su quelle scivolose del presente. E ciò può avvenire proprio perché -e non “nonostante il fatto che”- Pesce sia un uomo integralmente novecentesco. Tutto in lui grida la sua appartenenza al Novecento: la fiducia tenace nel ruolo del Partito, la concezione ‘forte’ della politica impensabile al di fuori di una salda prospettiva etica, la consapevolezza di aver agito per un’istanza collettiva in grado di esaltare, e non di mortificare, il singolo. Pesce impara presto il senso profondo del sentimento della fraternità. Bambino, emigrato in Francia con la famiglia, osserva e poi prova direttamente la dura vita del minatore. Scrive Pesce: «I minatori emigrati vivevano alloggiati in baracche di legno -sette ed otto per locale- esposti a mille pericoli, costretti ai lavori più insani e più duri: sfruttati, umiliati, trattati come bestie». E prosegue: «Mia madre gestiva una ‘cantina’, una specie di trattoria, frequentata dai minatori. La sera molti vi si davano convegno, discutevano, parlavano fino a notte inoltrata. Ancora non riuscivo a comprendere perché così stanchi, con una giornata di lavoro duro sulle spalle, anziché andarsene a riposare, rimanessero lì fino a notte fonda». Ma poi capisce le motivazioni di quel comportamento: «Più tardi, quando conobbi anch’io la vita del minatore, compresi questi uomini e seppi che erano comunisti, che si organizzavano e che bisognava essere organizzati per abbattere la società capitalistica. Avevo per loro una grande ammirazione: erano per me degli esseri straordinari. La loro fede, il loro spirito di sacrificio, la loro tenacia mi commuovevano fino al fondo dell’animo quanto più riuscivo a comprendere come tutto fosse messo da loro a servizio della causa operaia». Il brano che abbiamo citato è tratto da uno dei più importanti libri di Pesce, Un garibaldino in Spagna, uscito nel 1955 e oggi riedito da un piccolo editore, Essezeta, in occasione del Settantesimo anniversario della Guerra di Spagna (Un garibaldino in Spagna, con una prefazione di F. Giannantoni e I. Paolucci, Edizioni Essezeta – Arterigere, 2006, 12 euro). Sebbene la fama di Pesce sia giustamente legata all’attività di comandante partigiano, gappista con il nome di “Ivaldi” e poi di “Visone”, la sua storia umana e politica comincia qualche anno prima della lotta partigiana in Italia. Diciottenne, nel 1936, si arruola volontario nelle Brigate Internazionali e combatte nella Guerra di Spagna. Quell’esperienza drammatica e terribile costituisce la vera formazione di Giovanni Pesce e, con lui, di una intera generazione di antifascisti. Lo ribadisce egli stesso nel suo libro forse più celebre, Senza tregua: «Se è vero che in terra spagnola il fascismo fece la prova generale della successiva aggressione all’Europa è altrettanto vero che in Spagna si formarono, si temprarono i valorosi combattenti della Resistenza italiana ed europea». Ancora pochi mesi fa, in occasione dei festeggiamenti per il 25 aprile, Pesce è tornato a insistere, proprio dalle colonne di Liberazione, sullo stretto nesso fra guerra di Spagna e guerra partigiana: «Non fummo in Spagna dei vinti, ma giovani e anziani che marciavano come dei combattenti anche nella dolorosa ritirata. Avevamo il rimpianto nel cuore; lasciavamo il popolo spagnolo, ma ci attendevano altre dure prove da combattere con gli stessi sentimenti e gli stessi ardori. Questa volta vittoriose, sino al ‘radioso 25 aprile’». Si capisce perciò il motivo per cui Pesce abbia spesso ripetuto come il momento più alto della sua vita fosse stato la guerra di Spagna, mettendo dunque in primo piano una sconfitta tragica, quella delle Brigate Internazionali contro le truppe di Franco, rispetto a una straordinaria vittoria come quella partigiana contro il nazifascismo. Qui si trova un ulteriore elemento di interesse, e di forte attualità, della sua biografia. La sconfitta può diventare un elemento formativo e, di più, propulsivo per la lotta ideale. Si può venire battuti oggi, e domani ottenere una grande vittoria: essere in un certo momento in minoranza è ben altra cosa dall’essere minoritari. In tempi come i nostri in cui le scelte politiche, di grande come di piccolo momento, sembrano venire rinchiuse entro l’angusto ragionamento di una realpolitik di corto respiro, l’insegnamento di Pesce appare assai prezioso. Ciò che muove le idealità e la concreta azione politica del comunista Giovanni Pesce non si misura con il successo immediato, con il risultato più vicino e più a portata, ma pretende di essere valutato all’interno di una prospettiva più lunga e più profonda, che sappia connettere il risultato contingente, certo importante, o in alcuni casi addirittura fondamentale, con un orizzonte di ampio respiro. E’ qui uno degli insegnamenti più pregnanti della sua storia umana e politica, che è in questo senso storia di un autentico comunista. Lo stesso Pesce non perde occasione per sottolinearlo: in un bellissimo documentario-intervista realizzato qualche anno fa da Marco Pozzi, Pesce conclude il suo dire -con quella sua voce sicura ma piena di calore, addolcita com’è dalla “r” francese conservata dall’infanzia- citando un verso di Paul Eluard: «Ci sono parole che fanno vivere. Una di queste parole è la parola compagni».