L’inflazione si mangia i salari

L’inflazione vola: in marzo l’indice dei prezzi al consumo ha registrato una variazione congiunturale dello 0,5% e una tendenziale del 3,3%, l’incremento più alto dal settembre del ’96. Di più, sempre ieri l’Istat ha diffuso i dati sui prezzi alla produzione: in febbraio l’aumento mensile è stato dello 0,7%, mentre su base annuale la crescita è del 5,7%. Un brutto segnale: se non interverranno brusche cadute dei prezzi, nei prossimi mesi gli aumenti alla produzione sono destinati a scaricarsi sui prezzi al consumo e quindi sul potere d’acquisto di pensioni e salari che, come ha affermato ieri Giorgio Napolitano a Firenze, hanno già «un livello inadeguato, in particolare nell’industria».
Ma l’Italia non è sola. Secondo Eurostat, i prezzi al consumo sono in crescita in tutta Europa: +3,5%, con una punta del 4,6% in Spagna. Purtroppo «mal comune» in questo caso non è «mezzo gaudio»: all’aumento più contenuto che caratterizza i prezzi italiani corrisponde un tasso di crescita inferiore e quindi minori pressioni a causa di una domanda sempre più fragile che coinvolge milioni di consumatori. Ancora una volta la spinta ai prezzi ha cause esogene. L’inflazione, infatti, origina dagli aumenti internazionali delle materie prime: da quelle agricole (grano e riso hanno toccato in questi giorni i massimi storici) alle energetiche. Il problema ulteriore è che lungo la filiera alimentare, dalla materia prima al prodotto finito, i prezzi registrano aumenti spesso ingiustificati. Un solo esempio: quello del pane e della pasta, dove la materia prima incide solo per il 10% del prodotto finale il cui prezzo potrebbe facilmente essere contenuto se industria e distribuzione non calcassero la mano.
Gli aumenti più consistenti coinvolgono prodotti di base, necessari alla vita di tutti i giorni. E questo comporta una ulteriore erosione del potere d’acquisto di milioni di famiglie. Qualche esempio: la carne è aumentata su base annua del +4%, gli ortaggi del 4,8%, la frutta del 5,8% e addirittura del 17% la pasta. Per il pane, l’aumento è del 12,3% sempre e per il latte, dove fare il prezzo sono due grandi multinazionali italiane, del 10,5%. Per quanto riguarda il capitolo energia complessivamente segna un +9,8% tendenziale. In particolare, il gasolio segna un +4,8% in un solo mese, mentre rispetto al marzo 2007 l’aumento è del 20,2%. La benzina è aumentata in 12 mesi del 13,2% e il Gpl del 21%.
Appena un anno fa la dinamica dei prezzi al consumo registrava un incremento dell’1,7%, circa la metà del valore registrato a marzo di quest’anno. L’accelerazione è stata particolarmente forte nell’ultimo semestre: da ottobre, infatti, la variazione dei prezzi al consumo è superiore su base annua al 4,2%, mentre nell’ultimo trimestre, secondo l’Isae, il trend destagionalizzato è al 4,4%. E, purtroppo, non è finita. Da oggi, infatti, entrano in vigore gli aumenti delle tariffe del gas e elettricità i cui effetti (statistici) saranno registrati in aprile, ma è già stato calcolato che comporteranno una maggiore spesa di una cinquantina di euro su base annua a famiglia. E, a proposito di inflazione e riduzione del potere d’acquisto, Altroconsumo, una delle maggiori associazioni dei consumatori, ha calcolato che sulla base del tasso di inflazione calcolato dall’Istat, una famiglia media in appena 12 mesi, per poter conservare lo stesso livello di consumi del marzo 2007 deve spendere 975 euro in più.
Le reazioni delle forze politiche e sociali ai dati Istat sono caratterizzate da una forte preoccupazione. Per la Confesercenti aumentano i rischi per la crescita; per la Cgil (Maulucci) sono i lavoratori a subire il danno più grave; per la Cisl (Baratta) siamo a una emergenza nazionale. Berlusconi, invece, attacca Prodi: tutta colpa della sua politica. Di parere opposto il Centro studi Confindustria che (in un commentato dal titolo: «l’inflazione non c’è») sottolinea che l’aumento dei prezzi non sono solo un fenomeno italiano e che la causa è in soli due settori: l’alimentare e l’energetico. Insomma, Prodi non c’entra.