L’INDUSTRIA VA A ROTOLI. SALVIAMO L’INDUSTRIA

Il forte calo della produzione industriale, verificatosi in maggio, indica che il crollo dei consumi, che origina appunto quello della produzione, si verifica anche nel contesto di un campo industriale che si è via via ridotto. Ma questo è forse il meno. L’Italia sta fuoriuscendo del tutto dall’industria e anche l’industria residua rallenta. Il punto è questo. E’ dichiarato insomma lo stato d’allarme per tutta l’economia. Vale la pena, perciò, di inquadrare il problema ricorrendo allo scintillante incipit che Luciano Gallino utilizza per introdurre un aureo libretto: “La scomparsa dell’Italia industriale” (giugno 2003, Einaudi editore). Dice Gallino: “Nel XXI Secolo…..un paese che non possegga una grande industria manifatturiera, l’industria in senso stretto, rischia di diventare una sorta di colonia, subordinata alle esigenze economiche, sociali e politiche di altri paesi che tale industria posseggono”. E’ così descritta l’Italia, paese che ha abbandonato informatica ed elettronica e, ancor prima, la chimica e l’aeronautica civile. E oggi sta salutando anche l’auto ed esponendo a rischio siderurgia e navalmeccanica con cantieristica. L’Italia ha abbandonato i settori fondamentali dell’economia, lasciati emigrare o, semplicemente, venduti ad imprese straniere che decidono loro quel che serve, quando e come per un paese, il nostro, da cui e traggono utili riversandovi i costi sociali. La grande industria non c’è più e l’Italia è fuori dall’Europa. Financo Antonio Fazio, dinanzi a tale evidenza, suona la campana a martello e, all’assemblea della Banca d?Italia del 31 maggio u.s., dichiara che: “E’ scarsa la presenza delle nostre merci nei settori tecnologicamente avanzati: l’aumento degli acquisti dall’estero per soddisfare la domanda interna….ha superato quello delle esportazioni”. Questo è il quadro. Vale la pena di ricorrere a due esempi per illustrarlo meglio: settore energetico e, appunto, settore auto. Questi gli esempi.

– Oggi in Italia non si produce nemmeno più l’energia elettrica sufficiente per il fabbisogno interno, e ciò malgrado il calo della domanda industriale energivora. Ci si è consegnati mani e piedi nell’ultimo decennio non solo all’importazione, obbligata, dei combustibili fossili ma a quella diretta di elettricità. Una follia, poiché al primo problema che si è presentato per il paese fornitore (la Francia) l’effetto devastante è stato puntualmente scaricato sull’Italia acquirente. E’ il black out, elettrico ed economico: ha fatto cortocircuito la coppia privatizzazione e mancata programmazione. Bisogna perciò tornare a programmare “a lungo” nel settore, ad ambientalizzare gli impianti esistenti, ad investire sull’innovazione. Chi lo può fare? I nuovi “baroni della luce”, passati dal fare industria alle bollette? No di certo.
– Oggi in Italia Fiat auto se ne va: Il piano Morchio mette solo l’auto sullo scivolo della “morte dolce”. E, squadernata dinnanzi a tutti noi, è l’anomalia della Fiat. Sempre Gallino ne fa una rappresentazione efficace ricordando che in tutti i paesi i gruppi che producono auto per il mercato di massa, sono almeno due (per paese): in Francia, sono la Renault e PSA (Citroen-Peugeot); in Germania, sono Wolkswagen. Mercedes e BMW; in Giappone, sono Honda, Nissan e Toyota; negli USA, sono General Motors, Ford e Chrysler. In Italia non c’è che, la Fiat che sempre aiutata da Governi compiacenti, tutti, ha bruciato negli anni la concorrenza nazionale e ora, assediata dal debito derivante da scelte sbagliate, chiude bottega. GM resta in attesa come avvoltoio sull’albero, pronto a calare su Fiat auto e scenderà dall’albero (se nel frattempo avrà sistemato i problemi che ha in casa con la crisi dei fondi pensione privati) ma solo per ripetere con Fiat l’operazione Daewoo, di cui GM acquisì 4 stabilimenti di 16 a un quarto del valore, gettando per strada 50.000 persone. Chi può salvare la Fiat? Chi può salvare i metalmeccanici di Mirafiori e Arese? Non certo gli Agnelli.
Occorrono allora coraggio, grandi idee e, ancora, l’intervento pubblico. Se all’industria italiana sono venuti a mancare gli industriali, lo Stato si faccia esso stesso industriale. Sintesi: nel caso dell’energia come dell’auto, della siderurgia e della navalmeccanica occorrono quindi piani di settore che sappiano riformare profondamente l’economia a partire dal Mezzogiorno. Ma qui bisogna intenderci. Anche Confindustria vuole le riforme.

Nel documento “Osservazioni al DPEF 2003/2006” illustrato da Confindustria nel luglio di un anno fa alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato, gli industriali dissero che, per far crescere l’economia: deve ridursi la pressione fiscale dell’impresa; deve crearsi un mercato del lavoro in cui “non diventi un dramma la perdita del posto”; deve contrarsi “l’eccessivo peso contributivo” per il sistema previdenziale; deve essere sostenuta, con il credito agevolato, l’internazionalizzazione dell’impresa privata. Ciò registrato, viene proprio da domandarsi se sia dovuta all’assenza di queste cosiddette riforme la fuoriuscita, ad esempio, di Olivetti dall’informatica, o il fallimento della grande industria chimica, o il soffocamento dell’elettronica da consumo? O, ancora, viene da domandarsi come con gli stessi interventi si potrebbe recuperare la massa critica abbandonata in aeronautica o, infine, come riuscirebbero questi interventi a salvare Fiat auto dal “bacio della morte” di GM? A parere di chi scrive l’industria resterebbe sul piano inclinato della crisi, del resto molti degli interventi richiesti sono già in “corso d’opera” e la produzione, appunto, cala invece di salire. Ciò è dovuto a un riscontro, semplice semplice: la crisi è imputabile alla ricetta liberista, che in Italia oltretutto si sta drogando e, quindi, non la si combatte (la crisi) somministrando all’economia un’altra botta di liberismo spinto, come quello auspicato da Confindustria e che è già nella Legge 30 e nel dichiarato assalto alle pensioni. Con questa cura “muore il cavallo” e si va in soglia Argentina.

La cura giusta è quella che si cimenta con una compiuta politica industriale e guarda ai settori che, in Italia, possono ancora avere un futuro. Nel 1977 ci si provò a ridisegnare l’industria italiana con la L 675. Buona legge nei propositi, che però fallì in quanto lo Stato ne affidò la realizzazione al mercato, con gli esiti già richiamati per l’elettronica, la chimica, l’aviazione. Lo Stato deve invece scegliere, orientare e controllare. L’Italia non lo fa, altri lo hanno fatto: l’Inghilterra ad esempio che, è vero, abbandona l’auto ma assegna priorità all’aerospazio e, quindi, si specializza nella qualità; Francia e Germania, che mantengono ferma la mano pubblica su energia ed auto, e abbandonano sì i computer ma non mollano di un’unghia su chimica ed elettromeccanica pesante; gli Stati Uniti, che hanno visto l’esplosione di Internet (600 milioni di utenti nel 2003!) sanno benissimo che tale successo non si sarebbe mai realizzato senza i finanziamenti federali riversati, con la verifica di obiettivo successivo, nei centri di ricerca delle aziende e delle Università. Lo Stato, ovunque, è il cardine del rilancio e della tenuta dell’industria manifatturiera, quando si decide di produrre tecnologia e non solo comperarla. L’Italia, invece, ha scelto di competere solo sul prezzo e, con la dimensione ridotta di impresa che si è lasciata avanzare, si troverà a fare i conti con la Slovenia e la Moldavia su produzioni a basso valore aggiunto. E’ ora di cambiare: l’Italia non cresce, l’occupazione cala, la PMI non fa ricerca, i laureati trovano lavoro solo nei call center e nei centralini. Si giri pagina. L’Argentina davvero è vicina.

Rispondendo a un lettore su queste pagine, Fausto Bertinotti concludeva così: “o si ragiona sui problemi di fondo del Paese o si è perduti. Qualcuno potrebbe dire “vasto programma!” Eh, sì, infatti di questo si tratta”. E si tratta proprio di avere idee, sostenerle con le lotte, portarle al confronto delle forze politiche che vogliono rovesciare Berlusconi. “Vasto programma” quindi che, dal reddito sociale, dalla difesa delle pensioni, dei salari e dei contratti nazionali, disegni quell’altra economia della qualità in cui si possa sostenere la qualità del lavoro certo e del salario di qualità. Certo, ci vorranno leggi e strumenti, sarà assolutamente prioritario disattivare la Legge 30, sostenere la battaglia della FIOM su contratto e Fiat, far leva sui soggetti che hanno votato SI un mese fa, ma è la scelta di fondo, lo sbocco, il “vasto programma” appunto, che deve diventare il patrimonio delle forze dell’alternativa. Che programma allora per un’alternativa? Azzardiamone i contenuti e accompagniamoli con un esempio. E’ solo l’investimento, politico ed economico, su ricerca, innovazione, alta tecnologia che diviene la base per produzioni specializzate ad alto valore aggiunto, ad alta intensità di conoscenze e di lavoro di qualità. E’ solo il lavoro industriale di qualità che genera servizi di qualità alle imprese in termini di trasporti, manutenzione e costruzioni e offre una vocazione ai distretti industriali della PMI. Non è un ammodernamento questo, è la svolta di sistema in cui lo Stato, nelle sue articolazioni, programmi, legiferi, investa e controlli. Un esempio concreto, un episodio del “vasto programma”? Una nuova Fiat auto, senza gli Agnelli, a capitale pubblico di maggioranza con la presenza degli enti locali a partire dalle Regioni ove esistono stabilimenti, che si liberi dal cappio GM ed operi sui progetti e modelli innovativi con partnership europee. Gli operai ed i tecnici sarebbero tutti con questo progetto (o analoghi) e così gli intellettuali, le Università e la ricerca che, rovesciando la riforma Moratti, potrebbero far convergere una formazione di alto livello in un lavoro di alto livello.

* Responsabile Nazionale Dipartimento Politiche Industriali

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