La morte di un giocatore della squadra degli Yankees quando un aereo da turismo si è schiantato contro un palazzone di New York; le nuove rivelazioni di un ex stagista della Camera dei deputati sulle pressanti attenzioni di un onorevole repubblicano; la bolla immobiliare che si sgonfia; il ritiro di confezioni di lattuga provenienti dalla California, per lo stesso bacillo che tre settimane fa aveva contaminato gli spinaci causando tre morti; il probabile secondo test nucleare eseguito dalla Corea del Nord con relativa conferenza stampa del presidente degli Stati uniti George Bush; il nuovo record del deficit commerciale Usa; un nuovo studio della Johns Hopkins che stima a 655.000 il numero delle morti violente in Iraq dall’invasione americana del 2003 a oggi. Queste sono le notizie, in ordine di rilevanza ponderata, di cui ha ieri potuto disporre l’esigua élite statunitense che legge i grandi giornali di opinione.
Nell’involontario mosaico di notizie che la mera sincronia intarsia ogni giorno sulle pagine dei quotidiani, la nuova stima delle morti irachene è perciò solo una tessera minore, quasi nascosta dagli altri tasselli. E dire che non c’è paragone tra la consapevolezza generata persino da questa percezione attutita e invece la totale insensibilità indotta nella gran massa dell’opinione pubblica statunitense che s’informa solo attraverso scarni telegiornali.
Certo, la nuova stima va presa con le molle, il suo margine di errore oscilla fra le 426.000 e le 793.000 morti. Ma anche accettando il dente basso della forchetta, non può non venire la pelle d’oca di fronte alla vanità di questa strage. Se Bush voleva vendicare l’11 settembre 2001, bene, ha fatto pagare a un paese innocente di quell’attentato centoquaranta morti per ogni vittima di quel giorno: altro che dieci vite civili per ogni ucciso tedesco, secondo il criterio della Wehrmacht nella seconda guerra mondiale.
Mezzo milione di morti. E perché? Per far piombare il paese in una sanguinaria guerra civile senza sbocchi? Per costruire una meravigliosa teocrazia sciita nel sud e una piccola signoria curda nel nord? Per soddisfare l’ego di un bigotto insediato al numero 1600 di Pennsylvania avenue a Washington? Perché mezzo milione di uniche, irripetibili vite sono state falciate? Non c’è nessuna democrazia nella distribuzione dei decessi, ma solo il furore arbitrario della tirannia nell’elargire centinaia di migliaia di inappellabili condanne a morte.
Però, ancora più delle morti in sé, fa accapponare l’assuefatta indifferenza con cui le accoglie il pubblico Usa. Una volta c’era il prezzo del progresso, ora c’è il costo della democrazia. Infine, dopo 43 mesi di guerra e sterminate stragi, ora i sondaggi danno i repubblicani in calo per le elezioni del 7 novembre. Una buona notizia, da ultimo.
Ma fa disperare che questa svolta l’abbiano prodotta non le torture ad Abu Ghraib, non le intercettazioni non autorizzate, o le detenzioni di Guantanamo, o gli insensati massacri, o le bombe al fosforo su Falluja, ma gli insistenti corteggiamenti con cui un onorevole repubblicano (Mark Foley) insidiava i paggetti minorenni della Camera. Che sistema di comunicazione di massa, che democrazia è quella in cui un deputato maialetto conta più di due guerre in Iraq?