I marinai e marines britannici «stanno bene e in buona salute», ha comunicato ieri il ministero degli esteri iraniano: ma nessuna decisione è stata annunciata sul loro conto.
I quindici militari sono stati detenuti venerdì scorso mentre erano in pattuglia nella foce dello Shatt-el Arab, il corso d’acqua che segna il confine meridionale tra Iraq e Iran; domenica il ministro degli esteri iraniano Manouchehr Mottaki ha dichiarato che l’Iran sta considerando l’ipotesi di processarli per essere entrati illegalmente nelle acque territoriali iraniane – circostanza negata da Londra, che sostiene che i militari erano in acque irachene e stavano compiendo un normale controllo sul traffico commerciale come da mandato delle Nazioni Unite.
Anche Baghdad ieri ha fatto un appello all’Iran a rilasciare i militari britannici; un comunicato del ministero degli esteri iracheno afferma che «secondo le nostre informazioni quei soldati sono stati detenuti in acque irachene».
Sempre domenica la tv di stato iraniana ha mostrato le prime immagini del gruppo: seduti in una stanza, faccia annoiata ma per il resto sani. Dove siano però non è stato detto; l’ambasciatore britannico in Iran, che ieri si è recato al ministero degli esteri di Tehran per chiedere dettagli (e chiedere di vedere i detenuti), non ha ottenuto altre notizie. I funzionari iraniani gli hanno solo assicurato che il gruppo è in Iran e che Tehran cerca di risolvere la questione al più presto.
Il tono delle dichiarazioni pubbliche, sia a Tehran che a Londra, resta quello di un increscioso errore, un incidente locale: ma il tono non inganni, la crisi creata attorno a quei marinai britannici potrebbe andare ben oltre. Non come tre anni fa, luglio 2004, quando marinai britannici detenuti in circostanze analoghe erano stati mostrati alla tv iraniana mentre «confessavano», ma poi tutto si era risolto in quindici giorni. Il contesto è cambiato. Diverso è il governo in carica a Tehran: nel 2004 c’era (anche se ormai indebolito) quello del riformista Mohammad Khatami, anche se indebolito; ora è in carica il presidente Mahmoud Ahmadi Nejad, che ha dato una svolta più dura alla sua politica estera. Certo, il potere a Tehran è tutt’altro che monolitico, frammentato in diversi centri di potere in complicato equilibrio tra di loro: con l’attuale presidenza è decisamente aumentata l’influenza delle Guardie della Rivoluzione, il corpo militare creato dopo la rivoluzione (e indipendente dall’esercito) che vanta uno dei più capillari apparati del paese, è un soggetto economico, controlla fondazioni islamiche. E ha per statuto il controllo delle frontiere – sono le Guardie della Rivoluzione che hanno arrestato i militari britannici.
E’ cambiato soprattutto il contesto esterno. E’ precipitata la crisi attorno al programma nucleare dell’Iran, ormai oggetto di sanzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Proprio sabato il Consiglio ha approvato, con un voto unanime, una risoluzione che tra l’altro blocca i beni di alcune aziende controllate dalle Guardie della Rivoluzione e di alcuni suoi comandanti, individuati come legati alle attività di arricchimento dell’uranio. Tehran ha protestato per le nuove sanzioni, rivendica il suo diritto al nucleare per scopi civili (che include produrre l’uranio arricchito necessario come combustibile) e domenica ha annunciato che limiterà la sua cooperazione con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Certo: ieri Russia e Cina hanno diffuso una dichiarazione comune per dire che «il problema del nucleare iraniano va ricolto esclusivamente con mezzi pacifici», ma la tensione resta.
Nel quadro di crisi rientrano le accuse di Londra e Washington all’Iran di «ingerenza» in Iraq, di fomentare la violenza e sostenere i ribelli con «armi sofisticate». L’Iran accusa da tempo la Gran Bretagna di fomentare disordini etnici in Khuzestan, la provincia meridionale che confina con Bassora (dove vive una minoranza iraniana di lingua araba).
E’ su questo scondo di accuse che gli Stati uniti hanno aumentato la presenza militare nel Golfo: nella seconda metà di febbraio una seconda portaerei Usa, la Uss Stennis, è arrivata nel mare Arabico aggiungendosi alla Eisenhower che si trova già all’interno del Golfo persico; un comunicato del Comando navale Usa (in Bahrein) precisava ieri che «avere un secondo gruppo d’attacco qui serve di sostegno alle operazioni in corso in Afghanistan e in Iraq e a rassicurare i nostri partners regionali». (Si aggiunga che anche la Francia ha appena mandato una portaerei nel mare Arabico, la Charles de Gaulle, per sostegno alle sue operazioni in Afghanistan). L’Iran dal canto suo ha moltiplicato le esercitazioni militari nel Golfo – le ultime sono in corso in questi giorni. Che si tratti di un reciproco «nostrare i muscoli» è evidente, e il rischio di veri incidenti è sempre più reale.