L’impotente malessere russo

Mosca soffre sempre di più la politica estera americana. L’intervento in Iraq rischia di essere la goccia che fa tracimare il vaso. Ma la situazione del paese è tale da renderlo impotente
Putin è vincolato al carro americano dalla questione cecena e, soprattutto, dai prestiti americani per risollevare la collassata economia russa. L’unica cosa che può fare è rafforzare il rapporto con Francia e Germania

Il malumore fra Mosca e Washington è aumentato ma non ha raggiunto il livello della guerra fredda. I russi hanno vigorosamente protestato contro il sorvolo del loro territorio da parte di un aereo spia americano alla frontiera della Georgia. Il Dipartimento di Stato ha accusato a sua volta due imprese russe di vendere armi sofisticate all’Iraq, cosa che queste hanno smentito. La pubblicità data a questi avvenimenti, sembra provare che il periodo di amicizia aperto dallo schierarsi di Vladimir Putin per la guerra americana contro il terrorismo sta arrivando alla fine. Il Presidente russo, nel mese di febbraio, aveva annunciato l’intenzione di usare il veto contro la risoluzione angloamericana sulla guerra in Iraq. Era il seguito del viaggio a Berlino e a Parigi, ma sulle prime nessuno lo aveva preso sul serio. La Russia, molto impoverita, dipende troppo dagli Stati uniti per poter tenere loro testa, si pensava. In più Putin lasciava al ministro degli esteri, Igor Ivanov il compito di reiterare questa posizione astenenendosi dal parlare lui stesso. Cominciata la guerra al contrario ha gettato tutto il peso della sua presidenza nella condanna vigorosa dell’«errore americano» e per reclamare un mondo multilaterale retto dalle Nazioni unite. A Washington c’è stata sorpresa, ma non c’è stata nell’immediato una reazione antirussa. Al contrario la stampa americana si è mostrata piuttosto indulgente per il referendum costituzionale in Cecenia, il 23 marzo, come un passo insufficiente ma nella direzione giusta.

Il vero shock è stato creato dall’intervista all’International Herald Tribune, che ha rivelato che un sondaggio in tutti i paesi europei mostrava come la popolarità degli Stati uniti fosse dovunque in calo a causa di George W. Bush, salvo i due paesi totalmente antiamericani: la Russia e la Turchia. Il giornale non si spiega questo atteggiamento di un membro della Nato – la Turchia -, né della Russia, considerata come un paese amico. A Mosca, dove la grande stampa è dominata dagli oligarchi, si è cercato di attenuare la cattiva impressione sottolineando che però un grande numero di russi, il 38 per cento, è persuaso che l’Iraq detenga armi di sterminio di massa. Inoltre i giornali di Mosca sembravano sottoscrivere la tesi angloamericana che la guerra non sarebbe stata che una passeggiata di pochi giorni. E’ così che l’Izvestia, già organo del governo sovietico diventato oggi proprietà dell’oligarca Vladimir Potanin, ha scritto enfatizzando che «il treno espresso americano» progrediva a grande velocità e sarebbe presto stato a Baghdad. Più tardi ha dovuto abbassare il tono per mettersi un po’ più all’unisono con l’élite politica del paese.

Questa ha reagito infatti con grande energia contro la guerra in Iraq. La Duma ha rifiutato di ratificare il trattato russo americano sulla riduzione delle armi strategiche. Il senato ha proposto di annullare l’invito a George W. Bush e a Tony Blair per il trecentesimo anniversario di San Pietroburgo l’estate prossima. I comunisti sono stati i primi a organizzare dei comizi anti-guerra a Mosca e nelle province. Ma il partito di Putin, «l’Unità» detto l’Orso, non ha voluto lasciarsi distanziare e ha preso molteplici iniziative contro gli americani, il fatto è che la Russia è già in periodo elettorale, perché entro sei mesi si voterà per eleggere la nuova Duma e entro un anno il presidente della Repubblica.

«Per noi non è un affare di soldi», ha insistito Vladimir Putin ricevendo questa settimana i leader di tutti i gruppi parlamentari. Infatti sarebbe ridicolo scommettere sul rimborso dell’enorme debito iracheno – 8 o 9 miliardi di dollari – o sul rinnovo dei contratti di 40 miliardi di dollari firmati qualche mese fa prima dell’inizio della guerra. La Russia tiene naturalmente a difendere l’interesse nazionale, ma la sua priorità è l’ordine mondiale e cioè che nessun paese forte si arroghi il diritto di attaccare un paese più debole. Ma benché spalleggiata dalla Francia e dalla Germania, quale forza può mettere in atto per far trionfare la sua tesi?

Il paese è oggi appesantito da una burocrazia più vasta che all’epoca dell’Urss, malgrado la perdita di una decina di repubbliche. Dispone di un parco automobili di 5 milioni di macchine, generalmente fornite di chauffeur. Le entrate fiscali non bastano per pagare convenientemente questo esercito di funzionari e gli altri dipendenti dello stato, come gli insegnanti, i medici, l’amministrazione giudiziaria. Ognuno deve sbrogliarsela per vivere, dal poliziotto fino al giudice o al procuratore. La Russia è dunque diventata un paese fra i più corrotti del mondo. E’ un sistema che non profitta che alla mafia, onnipresente in ogni settore dell’economia. Vladimir Putin non ignora questa realtà, ma non sa come cambiarla. La sua decisione di metter fine alla divisione del Kgb, molto impopolare nella intellighenzia liberale, non basterà a cambiare la situazione. I migliori elementi dell’ex Kgb sono da tempo nel settore privato e non è un salario di 300 dollari al mese che li inciterà a tornare all’antico lavoro.

Vladimir Putin ha il merito d’aver tenuto l’impegno nei confronti della Francia e della Germania. Ma per gestire i prossimi mesi dovrà mettere ordine in casa sua e non sarà facile.