Colpo di fantasia dei sindacalisti della Fiom all’Ilva di Taranto. Ieri mattina alle 6, alla porta D, non hanno distribuito il solito volantino, ma 3 mila bottigliette d’acqua minerale. Esaurite in pochi minuti dagli operai del primo turno che hanno gradito la bella sorpresa. Massimo Battista, dell’esecutivo Fiom dell’Ilva, promette altre sorprese per la prossima settima ma non si sbottona: «Sarà un’estate calda e bagnata».
E’ partita la lotta «contro il biberon». Così i lavoratori dell’acciaieria hanno ironicamente ribattezzato la borraccia che da un paio di mesi sono costretti a usare per bere. Quel sant’uomo di padron Riva ha fatto sparire i frigoriferi pieni di bottigliette di minerale da tutti i reparti – compresi quelli dove la temperatura arriva anche a 70 gradi. «La plastica inquina», si è giustificato il sensibile ambientalista, che ha quantificato in 12 milioni le bottigliette ciucciate in un anno da quei beoni dei suoi operai. I camini dell’Ilva spandono fumi e polveri sottili su Taranto, ma volete mettere il danno provocato all’ambiente da 12 milioni di vuoti! E poi la minerale costa e costa riciclare la plastica. Per questo i frigoriferi sono stati rimpiazzati da «boccioni» con il rubinetto. Gli operai riempiono il «biberon» a inizio turno, se lo mettono in tasca e bevono mentre lavorano. Così si risparmia anche sugli spostamenti. C’è il piccolo particolare che un’acciaieria non è un lindo ufficio con l’aria condizionata. I «boccioni» all’Ilva sono piazzati vicino a impianti fumosi e polverosi. Non c’è sicurezza igienica e, in più, l’acqua esce calda.
All’Ilva di Cornigliano, dove si fa la produzione a freddo, hanno lasciato frigoriferi e bottigliette di minerale. All’Ilva di Taranto, dove si fa la produzione a caldo, li hanno tolti. Un motivo in più per incavolarsi, dice Battista, e una conferma che boccioni e biberon sono stati introdotti per risparmiare. A Taranto lavorano quasi 18 mila persone (compresi i 4 mila degli appalti), a Cornigliano solo 2 mila.
«Un padrone che risparmia sull’acqua la dice lunga su cosa sono oggi gli imprenditori italiani», commenta Giorgio Cremaschi, che alla Fiom nazionale segue il settore siderurgia. Il gruppo Ilva l’anno scorso ha fatto profitti per 1 miliardo di euro. In un paio d’anni l’impianto di Taranto ha aumentato da 6 a 10 milioni di tonnellate la produzione, +35% l’indice della produttività, perché il numero degli occupati è aumentato solo di un migliaio di unità. Si lesina sull’acqua in un’acciaieria dove infortuni e morti sul lavoro sono una tragica costante, sottolinea Cremaschi, dove vige «un regime da caserma».
«Uno stato di polizia», rincara Battista, sono oltre 750 le contestazioni disciplinari comminate dall’azienda dall’inizio dell’anno. Vinta la battaglia dell’acqua, annuncia Cremaschi, a settembre all’Ilva di Taranto partirà una campagna «per la libertà, contro le punizioni immotivate, vere e proprie violazioni dei diritti umani».
Il gruppo Riva usa le punizioni per ricattare, per mettere paura e «far chinare la testa». Due giorni fa i vertici dell’Ilva di Taranto hanno passato il segno. Hanno convocato una conferenza stampa per dire che il 30% degli infortuni che succedono sono «anomali». Anomali nel senso di «inventati», sostiene Battista. Finora l’Ilva si era «limitata» a imputare buona parte degli infortuni alla casualità o alla disattenzione dei lavoratori. «L’Ilva non chiama neppure il 118», ha denunciato l’Asl di Taranto lo scorso aprile, quando in una settimana due «incidenti» hanno causato un morto e 3 ustionati. I lavoratori risposero con uno sciopero di 32 ore, il più lungo nella storia dell’acciaieria di Taranto. Altro morto a settembre del 2005, provocato dallo scontro di due carri ponte. «Si è trattato di un evento assolutamente casuale, dovuto a comportamenti individuali scorretti, non in linea con le regole interne sulla sicurezza», sostenne l’azienda. «I lavoratori per l’Ilva sono carne da macello», replicò la Fiom.