L’idea di socialismo: bilancio storico e “processo di apprendimento”

1. Ha ancora senso continuare a parlare di socialismo dopo il trionfo dell’Occidente capitalistico? L’ideologia e la storiografia oggi dominanti sembrano voler compendiare il bilancio di un secolo drammatico in una storiella edificante, che può essere così sintetizzata: agli inizi del Novecento, una ragazza fascinosa e virtuosa (la signorina Democrazia) viene aggredita prima da un bruto (il signor Comunismo) e poi da un altro (il signor Nazi-fascismo); approfittando anche dei contrasti tra i due e attraverso complesse vicende, la ragazza riesce alfine a liberarsi dalla terribile minaccia; divenuta nel frattempo più matura, ma senza nulla perdere del suo fascino, la signorina Democrazia può alfine coronare il suo sogno d’amore mediante il matrimonio col signor Capitalismo; circondata dal rispetto e dall’ammirazione generali, la coppia felice e inseparabile ama condurre la sua vita in primo luogo tra Washington e New York, tra la Casa Bianca e Wall Street. Stando così le cose, non è più lecito alcun dubbio: evidente e inglorioso è da considerare il fallimento del «socialismo reale» e dell’idea di socialismo in quanto tale.
Senonché, questa storiella edificante nulla ha a che fare con la storia reale. La democrazia contemporanea si fonda sul principio per cui titolare di diritti inalienabili è da considerare ogni individuo, indipendentemente dal genere (o sesso), dalla razza e dal censo; la democrazia contemporanea presuppone, dunque, il superamento delle tre grandi discriminazioni che, alla vigilia dell’ottobre 1917, comportavano l’oppressione della stragrande maggioranza dell’umanità ad opera di poche sedicenti «nazioni elette» e che, nella stessa metropoli capitalistica, escludevano dal godimento dei diritti politici le donne, le popolazioni di origine coloniale e, talvolta, gli strati più poveri della popolazione. Il superamento delle tre grandi discriminazioni (sessuale, razziale, censitaria) non può essere pensato senza il contributo della lotta del movimento comunista internazionale e della sfida rappresentata dal «campo socialista». Della democrazia come oggi viene per lo più intesa fanno parte inoltre anche i diritti sociali ed economici. Ed è proprio il gran patriarca del neo-liberismo, Hayek, a denunciare il fatto che la loro teorizzazione e la loro presenza in Occidente rinviano all’influenza, da lui considerata funesta, della «rivoluzione marxista russa».
Al venir meno della sfida rappresentata da un forte movimento comunista internazionale e dal «campo socialista» corrisponde un generalizzato processo di involuzione. Non si tratta solo dello smantellamento dello Stato sociale. Tendono persino a ripresentarsi, sia pure in forma diversa, due delle tre grandi discriminazioni superate nel corso del Novecento. Negli Stati Uniti – sottolinea fra gli altri un autorevole storico liberal come Schlesinger jr. – il peso del denaro nelle competizioni elettorali è così forte che gli organismi rappresentativi rischiano di ridiventare monopolio delle classi proprietarie (come negli anni d’oro della restrizione censitaria del suffragio). Per quanto riguarda, invece, i rapporti internazionali, un teorico pressoché ufficiale della «società aperta», qual è Popper, procede ad una riabilitazione esplicita del colonialismo. Conosce altresì una rinnovata vitalità la mitologia imperiale in base alla quale un «popolo eletto» ha il diritto-dovere di guidare gli altri: al motivo del White Man’s Burden caro a Kipling sta subentrando il motivo dell’American Man’s Burden caro a Bush jr.
Una comprensione adeguata della storia del Novecento è assolutamente necessaria non solo e non tanto per rendere giustizia alle lotte di generazioni di comunisti, ma soprattutto per non perdere di vista i limiti di fondo del liberalismo reale e del capitalismo reale e, dunque, le ragioni di una lotta per l’emancipazione tutt’altro che conclusa.
2. E, tuttavia, anche a sinistra non mancano coloro che vorrebbero liquidare la vicenda storica iniziata con l’Ottobre, sia pure contrapponendo ad essa non già il capitalismo e il liberalismo occidentali bensì l’utopia. Epperò, un tal modo di procedere rischia di raccomandare come rimedio quello che spesso ha contribuito ad aggravare il male. Vediamo la dialettica che si è sviluppata a partire dalla rivoluzione bolscevica. Infuria ancora il primo conflitto mondiale: la carneficina in atto e la cancellazione delle libertà più elementari, in nome dello stato d’eccezione, ad opera anche degli Stati di più consolidata tradizione liberale, tutto ciò fa apparire del tutto insoddisfacente ogni programma politico che si fermi al di qua della rivendicazione di un ordinamento sociale privo di apparato statale e militare, anzi liberato da ogni forma di costrizione. Il marxismo finisce così con l’appiattirsi sull’anarchismo e anzi col configurarsi come una sorta di religione. Il giovane Bloch si attende dai Soviet la «trasformazione del potere in amore». Nella Russia sovietica, esponenti socialisti rivoluzionari proclamano che «l’idea di Costituzione è un’idea borghese»: su tale base non solo è agevole giustificare qualsiasi misura terroristica per fronteggiare l’emergenza, ma, soprattutto, risulta assai problematico o impossibile il passaggio ad una normalità costituzionale, già in anticipo bollata come «borghese». E così, lo stato d’eccezione radicalizza l’utopia sino a renderla astratta e questa utopia astratta irrigidisce ulteriormente e rende insormontabile lo stato d’eccezione.
La retorica patriottarda e gli odi nazionali, in parte «spontanei» in parte sapientemente attizzati, erano sfociati nel macello della guerra imperialista. Imperiosa si presenta l’esigenza di iniziare un capitolo di storia del tutto nuovo. Ecco allora emergere in certi settori del movimento comunista un internazionalismo irrealistico, che tende a liquidare come semplice pregiudizio le diverse identità nazionali. E’ un «universalismo» che non sa rispettare le peculiarità, le differenze: esso non può che aggravare i conflitti e la questione nazionale, prima all’interno dell’URSS e poi nei rapporti tra i diversi Stati socialisti. E di nuovo vediamo agire l’infausta spirale stato d’eccezione-utopia astratta -stato d’eccezione ulteriormente acutizzato.
La percezione del peso che gli interessi capitalistici avevano avuto nello scatenamento della carneficina rende odioso agli occhi degli spiriti più sensibili non solo il capitalismo ma persino il denaro in quanto tale. Il giovane Bloch chiama i Soviet a metter fine non solo a «ogni economia privata» ma anche a ogni «economia del denaro» e, con essa, alla «morale mercantile che consacra tutto quello che di più malvagio vi è nell’uomo». Per quel che riguarda in particolare la Russia, la catastrofe verificatasi in seguito al primo conflitto mondiale e alla successiva guerra civile comporta il tracollo anche dell’economia monetaria, la quale finisce con l’essere sostituita in certe zone dallo scambio in natura. Questa situazione d’emergenza viene invece letta come «comunismo», sia pure «di guerra»; come avanzata verso il comunismo viene persino gabellata un drastico provvedimento d’emergenza quale la requisizione coatta da parte del potere sovietico delle eccedenze alimentari accumulate dai contadini. In tutti e tre i casi qui esaminati, l’utopia enfatica e divenuta astratta (l’attesa messianica del dileguare dello Stato, delle identità nazionali e della moneta) finisce col trasfigurare come anticipazione del futuro post-capitalistico fenomeni (assenza di un preciso quadro costituzionale, oppressione nazionale, insufficiente sviluppo del mercato nazionale) che sono invece espressione della persistenza dell’antico regime.
3. E, tuttavia, l’emergere di un’utopia enfatica e astratta non è il prodotto della fantasia di singoli autori e singole personalità, bensì il risultato di un oggettivo processo storico. Ci può essere qui d’aiuto un’indicazione di Engels, il quale, nel fare il bilancio della rivoluzione inglese e francese, osserva: «Affinché potessero venire assicurate almeno quelle conquiste della borghesia che erano mature e pronte ad essere mietute, era necessario che la rivoluzione oltrepassasse il suo scopo […] Sembra che questa sia una delle leggi dell’evoluzione della società borghese» . Non c’è motivo per sottrarre alla metodologia materialistica elaborata da Marx e Engels la rivoluzione che a loro si è ispirata. In fondo, ogni grande rivoluzione tende a presentarsi come l’ultima, anzi come la soluzione di ogni contraddizione e quindi come la fine della storia. Se da un lato stimola l’entusiasmo di massa necessario per travolgere l’accanita resistenza dell’Antico regime, dall’altro l’utopia enfatica e astratta finisce col rendere più difficile il processo di costruzione della nuova società. Essa riesce a definire con precisione i suoi obiettivi e le forme politiche chiamate a realizzarli solo attraverso un faticoso e spesso contraddittorio processo di apprendimento.
Il movimento socialista e comunista è ben lungi dall’aver condotto a termine questo processo. Dobbbiamo pensare il futuro post-capitalistico come il totale dileguare non solo degli antagonismi di classe, ma anche dello Stato e del potere politico e della norma giuridica in quanto tali, nonché delle religioni, delle nazioni, della divisione del lavoro, del mercato, di ogni possibile fonte di conflitto? Dobbiamo continuare a ritenere con Bebel che nella società comunista non c’è più posto per i «parlamenti», le dogane, il fisco, i «tribunali», «gli avvocati e i pubblici ministeri», le «prigioni», la stessa norma giuridica, i delitti e persino i sentimenti di «odio» e di «vendetta», sicché «decine di migliaia di leggi, decreti e ordinanze vanno al macero»? Dobbiamo continuare a ritenere con Trotskij (La rivoluzione tradita), che nel comunismo, assieme allo Stato è destinato a dileguare anche il «denaro» e ogni forma di mercato? Anzi, a giudicare da certe dichiarazioni di Trotskij, trasformazioni miracolose avvengono già nell’ambito del socialismo: «La vera famiglia socialista, liberata dalla società dai pesanti e umilianti fardelli quotidiani, non avrà bisogno di nessuna regolamentazione e la sola idea di leggi sul divorzio e sull’aborto non le parrà migliore nel ricordo delle case di tolleranza o dei sacrifici umani».
Abbiamo già visto gli effetti rovinosi della dialettica stato d’eccezione-utopia astratta- irrigidimento ulteriore dello stato d’eccezione. Conviene invece tener presente la lezione di Gramsci, che forse più di tutti si impegnato nella sforzo di de-messianizzazione del progetto comunista. Mettendo in discussione il mito dell’estinzione dello Stato e del suo riassorbimento nella società civile, egli ha fatto notare che la stessa società civile è una forma di Stato; ha inoltre sottolineato che l’internazionalismo non ha nulla a che fare col misconoscimento delle peculiarità e identità nazionali, le quali continueranno a sussistere ben oltre il crollo del capitalismo; quanto poi al mercato, Gramsci ritiene che converrebbe parlare di «mercato determinato» piuttosto che di mercato in astratto.
Ma, al di là della lezione di questo o quel grande autore (non si dimentichi che lo stesso Bloch ha poi preso le distanze dall’utopia astratta dei suoi anni giovanili), si tratta soprattutto di analizzare il processo di apprendimento del movimento comunista in quanto tale. Mentre infuria la prima guerra mondiale, Lenin ribadisce e radicalizza la tesi dell’estinzione dello Stato; ma negli ultimi anni della sua vita, egli chiama a costruire un apparato statale «veramente nuovo» e che «meriti veramente il nome di socialista, di sovietico», impegnandosi anche ad imparare dai «migliori modelli dell’Europa occidentale». Nel concludere il congresso di fondazione dell’Internazionale, in un momento in cui il capitalismo sembra sul punto di essere travolto, Lenin non esita a dichiarare: «La vittoria della rivoluzione proletaria in tutto il mondo è assicurata. Si approssima la fondazione della repubblica sovietica internazionale». Circa dieci anni dopo, Stalin è invece costretto ad osservare: «la stabilità delle nazioni è grande in misura colossale». D’altro canto – farà notare più tardi lo stesso Stalin – la lingua, elemento essenziale dell’identità nazionale, non è una semplice sovrastruttura, come dimostra il suo tenace permanere attraverso il passaggio da un regime sociale ad un altro; il socialismo non è il dileguare delle diverse lingue e delle diverse identità nazionali. Ancora. Per lunghi anni Mao Tsetung ha nutrito l’illusione di poter drasticamente accelerare lo sviluppo delle forze produttive facendo appello all’entusiasmo rivoluzionario di massa; senonché, la mediocrità dei risultati conseguiti e la contemporanea stabilizzazione del capitalismo hanno reso evidente la necessità di far ricorso agli incentivi materiali e all’«economia socialista di mercato». Sempre in Cina, a partire dall’allentarsi dello stato d’eccezione permanente imposto dall’imperialismo e sulla base di un processo di apprendimento reso più agevole da questa nuova situazione, matura il riconoscimento teorico dell’importanza del governo delle leggi e si sviluppano sforzi per costruire uno Stato socialista di diritto (è in questi termini che, rompendo sia con la tradizione del «socialismo reale» sia con l’eredità della «rivoluzione culturale», si esprimono l’odierna Costituzione e i dirigenti della Repubblica Popolare).
4. Se il venir meno della sfida rappresentata dal «campo socialista» ha lasciato campo libero alla rinnovata brutalità dell’imperialismo e del neoliberismo, questa rinnovata brutalità sta cominciando a ridare slancio ai progetti di società post-capitalistica e socialista. Questi progetti assumeranno forma e concretezza nelle condizioni e con le modalità più diverse; in alcuni di essi si avvertirà maggiormente il peso del sottosviluppo e dell’arretratezza economica e sociale, in altri meno. Ma tutti questi progetti sono chiamati a non perdere di vista e, anzi, a sviluppare ulteriormente il processo di apprendimento già verificatosi, prendendo piena consapevolezza del carattere complesso e tortuoso della costruzione di una società post-capitalistica ed evitando gli errori e gli orrori del passato. Un’avvertenza, tuttavia, si impone. Riconoscere l’importanza del governo della legge e delle garanzie formali di libertà non significa ignorare i conflitti drammatici che si possono verificare in una situazione ben determinata. Per fare solo un esempio, si pensi alla tragedia del Nicaragua sandinista. A suo tempo, gli Usa l’hanno sottoposto al blocco economico e militare, al minamento dei porti, ad una guerra non dichiarata, ma sanguinosa, sporca e contraria al diritto internazionale. Dinanzi a tutto ciò, il governo sandinista si vedeva costretto a prendere misure limitate di difesa contro l’aggressione esterna e la reazione interna. Ed ecco Washington ergersi a difensore dei diritti democratici conculcati dal «totalitarismo» sandinista. Vien fatto di pensare al boia che, dopo aver proceduto all’esecuzione, grida allo scandalo per il colore terreo e cadaverico della sua vittima. Un atteggiamento grottesco: eppure non sono mancate le anime belle della sinistra occidentale che si sono associate alle grida di scandalo del boia e alla condanna delle misure “liberticide” dei dirigenti sandinisti, il cui spazio di manovra dinanzi all’aggressione è stato progressivamente ridotto e annullato. Il risultato: elezioni in cui il popolo nicaraguense, già dissanguato e stremato, col coltello più che mai puntato alla gola, ha deciso “liberamente” di cedere ai suoi aggressori. E’ stato il trionfo non della democrazia, bensì della politica di guerra e di oppressione dell’imperialismo. E’ una lezione da non dimenticare per coloro che hanno veramente a cuore la causa della libertà e della democrazia.