Libia – Alcune riflessioni

Non cadete nel tranello – è l’invito rivolto con parole appassionate a tutte le forze democratiche e progressiste del mondo dal padre della rivoluzione cubana, Fidel Castro – dell’ assordante campagna mediatica levatasi sul piano planetario dopo le notizie dei terribili scontri, senza risparmio di colpi tra le parti in causa, in Libia. Un conflitto giustamente definito “una guerra civile”. Che ha trascinato l’ex colonia italiana del nord Africa in una tribale resa dei conti tra fazioni della leadership libica e delle comunità territoriali che popolano la nazione araba. Una tragedia i cui veri contorni politici e ideologici sembrano poco chiari persino ai più sperimentati specialisti della storia e della politica di quella regione del mondo.

Ed è in questo quadro che dalla leadership di Cuba socialista, dai dirigenti delle rivoluzioni latinoamericane – a cominciare da Hugo Chavez -, dalle forze più responsabili e serie della sinistra mondiale, da importanti e autorevoli partiti comunisti (come quello portoghese), da tanti paesi del terzo mondo e del movimento dei non allineati sono giunte parole improntate alla ragione, segnate da pressanti inviti a riannodare i fili del dialogo. Parole volte a preservare l’unità, l’indipendenza e la sovranità di un Paese, la Libia, che ha diritto comunque di risolvere senza ingerenze i propri conflitti interni. Riflessioni ponderate alle quali si sono aggiunti i moniti altrettanto maturi dei rappresentanti delle potenze emergenti della grande area mondiale del “Brics”, volti anch’essi a chiedere il mantenimento della calma e ad evitare inopportune strumentalizzazioni internazionali.

Ed è rispetto a questa prova di equilibrio politico proveniente dal mondo socialista e progressista mondiale che la campagna propagandistica sollevatasi in questi giorni nel mondo occidentale e diretta all’enfatizzazione del già difficile quadro libico e – al fondo – alla demonizzazione dell’intera storia post coloniale libica, ha rivelato il proprio carattere di mera strumentalizzazione. L’enfatica e nevrotica campagna occidentale si è levata in stridente contrasto con i toni distaccati utilizzati dai media e dai rappresentanti politici nord americani ed europei in relazione alle altre vicende che stanno caratterizzando i paesi che si affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo e il Medio Oriente più in generale. Questo “taglio” interpretativo generale assunto dall’occidente capitalistico rispetto alla questione libica, ha spinto e legittimato i media subordinati alla cultura dominante a superare di gran lunga anche i limiti che deve avere almeno il buon senso. E abbiamo assistito, di conseguenza, al dipanarsi di un “racconto dal conflitto libico” segnato da incredibili forzature e disseminato da altrettanto inverosimili menzogne. Compresa la spericolata e sfacciata montatura, peraltro ben presto smascherata, delle presunte fosse comuni a Tripoli. E’ l’imperialismo che ci riprova – come nella Jugoslavia, come in Iraq – a costruire il demone da bombardare.

Anche nel caso della figura di Gheddafi la montatura mediatica occidentale si è messa alacremente al lavoro. Il colonnello libico è personaggio sicuramente discutibile e deprecabile per la gestione autoritaria interna e per aver abbandonato, per molti versi, il progetto di autonomia del proprio Paese dall’imperialismo Usa e dall’occidente capitalistico. Tuttavia siamo oggi di fronte ad uno scarto impressionante tra la demonizzazione della figura di Gheddafi fatta in questi giorni, sotto le spinte dei poteri politici, dai media occidentali e la profondità e la qualità delle relazioni che gli Usa e i paesi dell’Unione europea hanno intrattenuto sino a ieri con il colonnello. Un leader che in virtù delle giravolte di cui è stato protagonista nel corso della sua lunga carriera, sino a ieri era comunque gradito ospite di tutti i paesi europei e affidabile partner d’affari e che, in un battibaleno, si è trasformato nel bersaglio di una campagna che gli addossa tutte le responsabilità del grave conflitto che si è scatenato di fronte alle nostre coste.

Una campagna, occorre dirlo, che in Italia ha trovato i suoi più fanatici sostenitori proprio nello schieramento di “centro-sinistra”, con un ruolo di punta assolto da quel PD che, in quanto membro dell’Internazionale Socialista, fino a solo poche settimane fa non aveva avuto nulla da ridire sul fatto che i partiti di regimi screditati come quello egiziano e tunisino, travolti miseramente dall’ondata di rivolte popolari, facessero parte a pieno titolo e con tutti gli onori dell’organismo che riunisce le socialdemocrazie di tutto il mondo. Una campagna a cui si sono prestati, senza manifestare anche solo il minimo dubbio sulla sua veridicità, trasmissioni televisive di grande audience, su cui si concentra la simpatia di gran parte dell’opinione pubblica democratica del nostro Paese. Non un solo dubbio, un interrogativo sembra avere sfiorato l’intero apparato mediatico occidentale.

E allora, in nome dell’ “ingerenza democratica e umanitaria”, di cui si arrogano il diritto l’imperialismo statunitense e quello europeo (che conta su alcune illusioni, coltivate anche a sinistra, circa un ruolo di “garante pacifico del rispetto dei diritti umani” di strutture come l’Unione europea, interessate invece cinicamente anch’esse ai processi di espansione coloniale), ecco che, rapidamente, è venuta materializzandosi la lucida previsione avanzata da Fidel Castro: “ il piano della NATO è occupare la Libia”.

Ci si appresta così a mettere in pratica il “nuovo concetto strategico” approvato all’ultimo vertice di Lisbona dell’Alleanza Atlantica, che prevede la piena legittimazione all’interventismo di questa organizzazione militare in ogni parte del mondo. La NATO sta scaldando i motori dei suoi bombardieri, minacciando esplicitamente, per bocca dei capi delle potenze che ne hanno la guida, a cominciare da premio Nobel per la pace Barack Obama, di ripetere a poche centinaia di chilometri dalle coste italiane l’impresa dell’Iraq e dell’Afghanistan. Le notizie delle ultime ore sono allarmanti. E non si tratta solo di sanzioni. Navi da guerra occidentali stazionano al largo delle coste libiche, pronte a intervenire, e c’è chi parla della presenza nella Cirenaica “liberata dagli oppositori di Gheddafi” di centinaia di consiglieri militari statunitensi, britannici e francesi (a proposito di mercenari presenti sul posto!).

E l’Italia, attraversata da un forsennato coro bipartisan, si appresta a trovarsi in prima linea. L’obiettivo è evidente. Alle potenze occidentali non interessa assolutamente il rispetto dei diritti umani in Libia, diritti che del resto esse contribuiscono a conculcare in tantissimi altri paesi del mondo. All’occidente imperialista e all’Unione europea stanno a cuore la difesa dei propri interessi economici e strategici in quella parte del pianeta, decisiva ( in particolare) per le enormi risorse energetiche di cui dispone. In nome di questi “sacri principi”, l’occidente è disposto non solo a prolungare il bagno di sangue, evitando ogni ipotesi di soluzione negoziata del conflitto, una soluzione pacifica e rispettosa della sovranità libica. Ma è volto invece a spezzare l’integrità territoriale della Libia, dividendola in diverse entità territoriali completamente subordinate ai propri interessi, ripetendo il tragico gioco che ha portato allo smembramento della Jugoslavia. E questo progetto di “balcanizzazione” della Libia può iniziare dall’ autonomia della Cirenaica, oggi apparentemente in mano ai seguaci della monarchia feudale libica, già scalzata dalla rivoluzione antimperialista del 1969.

Ma di tutto questo c’è consapevolezza nelle forze di progresso, nel movimento per la pace, tra tutti i comunisti del nostro Paese? L’impressione che si ricava è che tale consapevolezza non vi sia e che il rischio che si corra è quello – persino – di fornire oggettivamente sostegno ai progetti neocolonizzatori Usa e NATO. Dopo essere scese in piazza (francamente senza molto senso della misura), a fianco dei monarchici che inalberavano le bandiere dello screditato re Idris, alcune forze della sinistra “radicale” e lo stesso movimento pacifista si trovano adesso in difficoltà di fronte al precipitare della situazione, di fronte cioè allo sbocco della “guerra umanitaria”. Da tempo, del resto, il movimento pacifista italiano non sembra più in grado, non solo di suscitare le grandi mobilitazioni dell’opposizione alla guerra in Iraq; ma neppure movimenti di più modesta entità, a partire dalle questioni del coinvolgimento del nostro Paese nelle più pericolose avventure militari nel mondo. E oggi il movimento della pace, già così fortemente indebolito, rischia di essere ulteriormente “disarmato” dalla gigantesca pressione mediatica di questi giorni, che sta preparando l’opinione pubblica al consenso nei confronti della guerra.

Spetta allora ai comunisti un compito, centrale quanto difficile. Ricordare a tutti, ad esempio, che la Libia divenne un prioritario terreno di conquista, per gli Usa e la Gran Bretagna, quando, alla fine degli anni ‘50, la compagnia statunitense “Esso” ratificò scientemente la presenza di immensi giacimenti petroliferi sul suo territorio. Da quel momento le maggiori compagnie, come la Esso e la britannica British Petroleum, ottennero vantaggiosissime concessioni di tipo colonialista, volte a garantire loro il controllo e il grosso dei profitti ricavabili dal petrolio libico. Due concessioni – è bene ricordarlo – le ottenne anche l’italiana Eni, attraverso l’Agip. E spetta ancora ai comunisti ricordare due fatti importanti: primo, che per controllare al meglio i giacimenti, venne abolita nel 1963 la forma federale di governo, eliminando le storiche regioni di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan; secondo, che fu la Repubblica Araba libica guidata dall’allora “nasseriano” Muammar Gheddafi a costringere nel 1970 le forze statunitensi e britanniche ad evacuare le basi militari e, l’anno seguente, a nazionalizzare le proprietà della British Petroleum, imponendo alle altre compagnie di versare allo stato libico quote molto più alte dei profitti.

Il ruolo dei comunisti è quello – oggi più che mai- di diradare le nebbie politiche e ideologiche, facendo capire che le antiche mire imperialiste sul mondo arabo e sulla Libia, sui giacimenti petroliferi, trovano, in questa fase, un terreno di nuovo fertile per rilanciarsi. Occorre chiarire e divulgare senza tentennamenti (e senza farsi illusioni sul ruolo di un’ Unione europea sempre più reazionaria e atlantica) una linea di opposizione netta e intransigente alle “ingerenze umanitarie” dell’imperialismo, sotto qualsiasi forma esse possano presentarsi e mascherarsi. A partire dalla netta opposizione all’uso delle basi americane e NATO dispiegate sul nostro territorio, un’opposizione tanto forte quanto alta è la possibilità della piena e subordinata disponibilità del governo Berlusconi ad accettare le nuove richieste belliche che già vengono e ancor più verranno dall’amministrazione nord americana e dall’Unione europea. Lo diciamo anche rispetto ai pericoli che vanno già materializzandosi, come quello grave rappresentato dalla disponibilità del governo italiano a mettere a disposizione la base di Sigonella alle forze militari inglesi della NATO.

“ No all’intervento NATO. NO all’uso delle basi italiane” debbono essere le prime parole d’ordine del movimento contro la guerra. E compito prioritario è far recuperare quella consapevolezza antimperialista che sembra essersi smarrita negli ultimi tempi. Operando invece per una soluzione pacifica della crisi libica con strumenti politico-diplomatici ed economici che non mancano, e che rispettino però il principio della non ingerenza negli affari interni di un paese sovrano. Violato il quale, i pericoli per la pace non diminuiscono, bensì aumentano in modo esponenziale, come dimostrano le vicende dell’Iraq, del Kossovo e dell’Afghanistan.