In un editoriale pubblicato ieri dal Corriere, l’ex ambasciatore Sergio Romano ha fortemente stigmatizzato la politica di Rifondazione comunista in materia di immigrazione. Romano ha contestato duramente la volontà del partito di superare la logica dei Centri di permanenza temporanea, di accelerare le regolarizzazioni di chi abbia già fatto domanda, di definire un quadro minimo di diritti anche per i clandestini. Per quanto l’inconsueto stile apodittico dell’articolo di Romano non aiuti molto la riflessione, ritengo che il tema sia di grande rilievo e meriti pertanto un serio approfondimento. A questo scopo metterò volutamente in subordine le questioni normative, di giustizia sociale, ed affronterò la problematica in termini di puro “realismo politico”. Quel realismo al quale il professor Romano usa solitamente appellarsi ma che pare ultimamente aver sottoposto a delle violente torsioni retoriche.
Partirò da un dato difficilmente controvertibile, sul quale credo si possa tutti esser d’accordo: in condizioni di assoluta libertà di circolazione dei capitali, delle merci e dei lavoratori, il sistema capitalistico risulterebbe totalmente instabile. La spiegazione di questo fenomeno può essere sintetizzata nella constatazione che la famigerata “convergenza globale dei redditi” – evocata dall’ortodossia economica più retriva e visionaria – in realtà non esiste. I dati rivelano infatti che l’apertura ai movimenti internazionali non riduce ma tende al contrario ad accentuare i processi di concentrazione sociale e di polarizzazione territoriale dei capitali. E’ questa l’evidenza che da diversi anni a questa parte si è riproposta all’attenzione mondiale e che – ben prima dell’11 settembre – ha messo nuovamente in dubbio la concezione armonica della globalizzazione sostenuta dai fautori dell’apertura dei mercati.
In che modo si è cercato allora di fronteggiare l’instabilità provocata dall’onda liberoscambista degli anni ’80 e ’90? L’orientamento prevalente, che ha trovato largo seguito nell’ambito dell’establishment, si basa su un duplice obiettivo, che potremmo definire di “liberismo asimmetrico”: difendere a tutti i costi la libera circolazione dei capitali ed avere invece un atteggiamento molto più pragmatico, circostanziato ed eventualmente repressivo rispetto ai movimenti di persone. Questa ambivalente linea di indirizzo non rappresenta certo una novità assoluta. Tracce della stessa sono rinvenibili lungo tutta la storia travagliata e sanguinosa del cosiddetto liberalismo. In particolare, della sua efficacia sono sempre stati consapevoli i responsabili della politica economica statunitense.
Le autorità americane hanno spesso adoperato lo strumento del controllo intermittente delle frontiere per garantire una continua sovrabbondanza di manodopera e ridimensionare in tal modo il potere contrattuale dei sindacati, ma anche per esaltare la funzione di repressione politica dei flussi migratori al fine di alimentare e al tempo stesso gestire le tensioni sociali tra nativi e stranieri. E non è un mistero che il caso americano sia stato preso ad esempio da numerosi tecnocrati europei, convinti che il mix di liberalizzazioni e restrizioni fondato sull’allargamento a 25 membri da un lato e sugli accordi di Schengen dall’altro, potrà assestare un colpo decisivo ai residui di sindacalismo e di stato sociale tuttora presenti nell’Europa dei fondatori. La soluzione post-globalista, pragmatica e repressiva adottata dall’establishment appare dunque sotto molti aspetti efficace, nel senso che potrebbe contribuire alla stabilizzazione del processo di riproduzione capitalistica in atto. Essa, non a caso, si insinua nelle decisioni di quasi tutti i governi, siano essi orientati a destra o a sinistra. E l’articolo di Romano, opportunamente depurato dagli artifici retorici, la rappresenta in modo esemplare.
Naturalmente, condizione necessaria affinché un simile orientamento non incontri ostacoli di sorta è che i costi sociali dello stesso ricadano tutti sulla classe lavoratrice. Infatti, fino a quando i capitali potranno liberamente spostarsi da un luogo all’altro del mondo, la quota del prodotto sociale attribuita ai profitti resterà quasi sempre indipendente e quindi prioritaria rispetto alla quota destinata al lavoro. Per i lavoratori residenti, insomma, non ci saranno molte possibilità di influire sulla distribuzione del prodotto sociale. Essi saranno quindi costretti a ripartire con gli immigrati la sola parte residuale della produzione concessa dai capitalisti, il che evidentemente rischia di scatenare la più classica “guerra tra poveri”. Scopo dei controlli repressivi alle frontiere è appunto quello di costituire un cuscinetto distributivo tra nativi e stranieri che possa essere sgonfiato o meno a seconda delle circostanze, e che permetta dunque di gestire questa guerra secondo i fini prioritari della riproduzione capitalistica.
Qualcuno avrà forse notato che nel ragionamento suddetto non vi è spazio per alcuni tipici luoghi comuni della politica corrente, come quelli secondo cui “l’immigrazione è indispensabile alla nostra economia” oppure “gli immigrati, in quanto giovani, sono gli unici in grado di evitare il collasso del nostro sistema previdenziale”. Queste affermazioni trovano il loro appiglio teorico negli assiomi della economia volgare dominante, dai quali scaturisce il fantasioso convincimento secondo il quale la disoccupazione non esiste, e quindi l’immigrato contribuirebbe automaticamente alla crescita del prodotto sociale. La nostra analisi si basa al contrario su una ipotesi molto più cruda e purtroppo realistica, risalente ai tipici schemi di derivazione marxiana: si tratta dell’idea che, in condizioni di libera circolazione dei capitali (e di relativo smantellamento della produzione pubblica), è la classe capitalista a decidere non solo la distribuzione ma anche la composizione e la dimensione assoluta del prodotto sociale. L’immigrato dunque non costituisce di per sé un fattore di crescita della ricchezza. E’ la classe capitalista che decide del suo destino, ossia del suo impiego in aggiunta oppure in sostituzione – e quindi competizione – con i lavoratori già occupati.
Bisogna insomma guardare in faccia la realtà, ed abbandonare sia i velleitari idealismi di quest’epoca che le fantasiose rappresentazioni del conflitto suggerite dagli epigoni della biopolitica negriana: il migrante, infatti, non rappresenta necessariamente una “forza sovversiva”, ma può al contrario rivelarsi, suo malgrado, un feroce strumento di repressione delle rivendicazioni sociali. Dovremmo tuttavia per questo ritenere la posizione di Rifondazione comunista del tutto insostenibile? Dovremmo cioè rassegnarci all’idea che il “realismo politico” dell’establishment sia l’unico ammissibile, e che sulla questione dei diritti dei migranti sarebbe meglio fare un passo indietro? Niente affatto. Al contrario, le considerazioni appena fatte ci aiutano a chiarire che se si vuole realmente costruire una credibile alternativa all’orientamento dominante occorre avanzare di un passo: è necessario cioè che alle mobilitazioni in difesa dei migranti si affianchi il continuo rilancio delle proposte finalizzate al controllo politico dei movimenti di capitale. Dove per controllo deve intendersi il riassorbimento, nell’ambito della dialettica politica, della questione cruciale del riequilibrio dei conti esteri. Per citare solo un paio di esempi che ci riguardano direttamente, questo significa che all’interno dell’Unione europea l’Italia e gli altri paesi periferici dovrebbero pressare sui vincoli di Maastricht ogni volta che si ponga un problema strutturale di competitività rispetto alla Germania e agli altri paesi centrali. Riguardo invece ai rapporti con i paesi extra-Ue, bisognerebbe ritessere il filo della tassazione e delle altre forme di restrizione dei movimenti di capitale. Negli spazi angusti dell’odierna contingenza politica, l’opposizione ai piani di abbattimento del debito pubblico e il rilancio di una Tobin tax degna di questo nome – ossia alta, scoraggiante e non banalmente redistributiva – potrebbero costituire delle modalità praticabili e tutt’altro che velleitarie per il perseguimento di una simile strategia. E potrebbero rivelarsi dei volani affinché più in prospettiva si possa tornare a discutere all’interno dell’Ue di bilancio europeo e di trasferimenti comunitari, e all’esterno di riforma del sistema monetario internazionale.
Abbiamo in definitiva chiarito che la strada della realpolitik avanzata da Sergio Romano non è affatto l’unica dotata di coerenza interna, e quindi non rappresenta necessariamente una via obbligata. Un percorso alternativo verte infatti sul superamento dei vizi idealistico-negriani che negli ultimi anni hanno imperversato a sinistra, e sul disvelamento del legame esistente tra migrazione umana e migrazione finanziaria. Con il rilancio dei controlli politici sui capitali, infatti, si aprirebbero dei varchi concreti per l’espansione della quota dei redditi destinati al lavoro, e alla lunga potrebbero costituirsi le condizioni materiali per il depotenziamento delle pulsioni xenofobe e per lo sviluppo di un nuovo internazionalismo di classe. “Liberare i migranti e arrestare i capitali”, dunque. E’ questa la strada per costruire, in seno alla sinistra europea, una proposta di politica economica e sociale che sia realmente alternativa al liberismo asimmetrico e repressivo dei nostri tempi.