«Libano, un abisso». Con gli italiani dentro

«Il Libano è sull’orlo dell’abisso». Il segretario dell’Onu Ban Ki-Moon non usa mezze parole per descrivere la situazione del paese. E in quell’abisso ci sono 2.400 soldati italiani.
A meno di una settimana dalla scadenza del mandato del presidente Emile Lahoud, i partiti della maggioranza filo Usa e quelli dell’opposizione guidata dal partito sciita Hezbollah (appoggiato dalla Siria), sono lontani dall’intesa sul nome del nuovo capo di stato che, secondo il sistema politico-confessionale libanese, deve appartenere alla minoranza cristiana. Sono minime le possibilità che il 21 novembre le due parti riescano a trovare in parlamento l’intesa che eviti una crisi al buio dalle conseguenze imprevedibili in un paese già devastato da una guerra civile. E’ invece elevato il pericolo che la maggioranza, spinta dagli Stati uniti, dalla Francia e dai suoi esponenti più oltranzisti – il leader druso Walid Jumblatt e il capo dell’estrema destra Samir Geagea (Forze Libanesi) – nomini il presidente con la maggioranza assoluta del 50% più uno dei voti, e non con la maggioranza dei due terzi disposta dalla Costituzione. Il caso è previsto nei dieci giorni precedenti la scadenza del mandato del capo dello stato uscente, ma è respinto seccamente dall’opposizione perché porterebbe alla scelta di un presidente rappresentativo solo di una parte del Libano.
Ieri il generale a riposo Michel Aoun, candidato dall’opposizione alla presidenza e leader del movimento cristiano dei «Liberi Patrioti» alleato di Hezbollah, ha condannato le pressioni statunitensi e minacciato di non riconoscere il nuovo capo dello stato. La tensione è altissima. Scontri tra attivisti di Hezbollah e di Mustaqbal, il principale partito di maggioranza guidato da Saad Hariri, sono esplosi due giorni fa nella cittadina di Bchamoun. Una scaramuccia con due feriti, che però ha fatto parlare con insistenza della ricostituzione di milizie armate, come ai tempi della guerra civile.
In questo clima infuocato arriva oggi a Beirut il ministro degli esteri Massimo D’Alema, a meno di un mese dalla sua ultima missione in Libano, per svolgere, ha comunicato la Farnesina, «un ruolo politico forte». A differenza del mese scorso, stavolta D’Alema non avrà incontri con esponenti di Hezbollah. E’ una scelta infelice poiché, in un momento decisivo, colloca di nuovo l’Italia accanto ad Hariri (che controlla il premier Fuad Siniora) e non nella posizione di mediatrice neutrale tra gli schieramenti opposti. L’impressione è che il ministro degli esteri italiano arrivi a Beirut allo scopo di dare sostegno all’iniziativa francese portata avanti dall’inviato Jean-Claude Cousseran – appoggiato dagli Stati Uniti e dal segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, anch’egli in Libano – il quale ha convinto il riluttante patriarca cattolico-maronita Nasrallah Sfeir ad indicare i nomi di possibili candidati alla presidenza. Il passo fatto da Parigi è contestato dall’opposizione. Aoun, che punta alla presidenza, ha accusato Cousseran di aver «invertito i ruoli». «Eravamo d’accordo che Sfeir non avrebbe indicato nomi ma invece ricevuto una lista tra i quali scegliere il più rappresentativo. Qualcuno messo fine a settimane di colloqui tra le parti», ha protestato.
La lista, composta da sei nomi, ora è nelle mani dello speaker del parlamento Nabih Berri (Amal), che è anche uno dei leader dell’opposizione, e di Saad Hariri. Ora i due, in teoria, dovrebbero scegliere un candidato accettabile dalle due parti. Tre sono i nomi più rilevanti: Nassib Lahoud e Boutros Harb, della maggioranza, e Michel Aoun dell’opposizione. La stampa e gli analisti locali hanno avvertito che senza un accordo sul presidente, il Libano rischia la catastrofe. Da parte sua il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha fatto la voce grossa con gli avversari politici e, indirettamente, ha chiesto al presidente uscente Lahoud di formare un governo alternativo a quello di Siniora, se Hariri e i suoi alleati nomineranno un capo dello stato senza maggioranza qualificata. Hariri ha replicato affermando che il nuovo presidente dovrà garantire «l’indipendenza del Libano e respingere l’egemonia di potenze straniere», chiaro riferimento alla Siria e all’Iran, sponsor di Hezbollah (per il capo della maggioranza sembra invece normale che gli Stati uniti cerchino di controllare il Libano).
Come si muoverà il contigente internazionale dell’Unifil (Onu), dislocato in Libano del sud e che include 2.400 soldati italiani, nel caso la crisi libanese sfociasse in scontri armati e violenze? Punterà le sue armi contro Hezbollah, come certo vorrebbero Washington e Israele? Il comandante della missione, il generale italiano, Claudio Graziano, si tiene a distanza e si limita a dichiarare che la situazione politica in Libano «è complessa, ma nel sud regna la calma». A distanza però non possono rimanere D’Alema e il governo italiano.