Domani a Damasco la commissione d’inchiesta
Arriva domani a Damasco, con uno slittamento di 48 ore sul previsto, il magistrato tedesco Detlev Mehlis, investigatore capo dell’Onu sull’assassinio dell’ex-premier libanese Rafiq Hariri, dopo aver appena ottenuto dal segretario generale Kofi Annan una proroga di quaranta giorni del mandato di tre mesi che sarebbe scaduto il 15 settembre; la proroga dovrà essere ratificata in settimana dal Consiglio di sicurezza ma è praticamente scontata, e Detlev Mehlis metterà dunque a punto il suo rapporto conclusivo intorno al 25 ottobre.
Sempre che non si rendano necessarie ulteriori proroghe: a sette mesi dal clamoroso attentato che il 14 febbraio scorso a Beirut costò la vita ad Hariri e a venti altre persone, quel delitto politico è ancora avvolto da un velo di mistero. L’unico dato certo è che l’uccisione di Hariri ha segnato una svolta nella storia recente del Paese dei cedri, la svolta più importante e forse più clamorosa dall’inizio nel lontano (ma non troppo) 1975 della guerra civile che sarebbe durata quindici anni e nella cui conclusione negoziata proprio Rafiq Hariri – fino allora conosciuto soprattutto come ricchissimo uomo d’affari libano-saudita – ebbe un ruolo di primo piano.
Come è noto, subito dopo l’assassinio di Hariri furono in molti, in Libano e fuori, a puntare l’indice accusatore nei confronti della Siria, che dal canto suo ha sempre recisamente respinto ogni addebito. In effetti sulla base del principio (elementare per ogni lettore di gialli) “cui prodest”, cioè a chi giova, la Siria avrebbe dovuto essere l’ultima a venire sospettata, visto che l’uccisione di Hariri ha avuto come conseguenza – facilmente prevedibile – una massiccia mobilitazione di tutte le forze libanesi ostili alla influenza di Damasco, la messa in crisi del governo filo-siriano e infine il ritiro totale, dopo ventinove anni di presenza, delle truppe siriane dal territorio libanese. Ma se è difficile pensare a una responsabilità diretta di Damasco, soprattutto con il governo riformatore(sia pure moderatamente) del giovane Bashar el Assad, è invece plausibile il coinvolgimento nel crimine di singoli esponenti o forse di settori dell’apparato siriano di sicurezza, a Damasco come a Beirut, se non altro per omissione, cioè per aver saputo e lasciato fare; senza escludere del tutto l’ipotesi che quei settori abbiano magari cercato proprio di mettere in difficoltà il presidente Assad per bloccare il processo di riforma e di “apertura” da lui avviato.
Solo fantapolitica? In Medio Oriente, e in Libano in particolare, niente può essere escluso e niente può essere dato per certo.
Come che sia, anche ritenendo che il delitto Hariri sia una storia tipicamente libanese, maturata in quel torbido intreccio tra “signori della guerra”, complicità esterna e affari poco chiari di cui è fatta da mezzo secolo in qua la storia del Libano, appare indubbia la responsabilità di elementi che possono essere sbrigativamente definiti “filo-siriani” e che come tali avevano ed hanno addentellati diretti e indiretti oltre confine; ricordando tuttavia che in una fase o nell’altra della guerra civile praticamente tutti in Libano – inclusi i falangisti e ad eccezione forse del solo generale Michel Aoun – sono stati in un modo o nell’altro “filo-siriani”, e che lo stesso Rafiq Hariri fino al 2000 ha governato da primo ministro d’amore e d’accordo con la Siria, che non gli ha impedito di fare affari d’oro con la sua impresa Solidere nella ricostruzione del centro di Beirut, in barba a quello che da noi si chiamerebbe conflitto d’interessi.
Su questo sfondo, la missione di Mehlis a Damasco consiste nell’interrogare “quali testimoni” gli ex-capi dei servizi siriani in Libano generale Khazi Kanaan (oggi ministro degli interni a Damasco) e Rustom Ghazali, suo successore, nonché i loro vice, colonnelli Mohammad Makhluf e Jamaa Jamaa; la loro “testimonianza” è apparsa alla commissione d’inchiesta Onu tanto più necessaria e tanto più interessante dopo che di recente il nuovo governo di Beirut ha rimosso e messo sotto accusa quattro alti ufficiali dei servizi libanesi notoriamente filo-siriani.
Alla luce di questi sviluppi sono andate intrecciandosi negli ultimi giorni nuove rivelazioni e nuove smentite. In particolare fonti ufficiali siriane, citate dal quotidiano di Beirut “As Safir”, hanno smentito le rivelazioni del sedicente colonnello Mohammad Safi, che sarebbe un ufficiale dissidente dei servizi siriani riparato all’estero e contattato a Ginevra dal giudice Mehlis, al quale avrebbe rivelato che l’esplosivo per l’attentato ad Hariri (una tonnellata del potente Rdx) sarebbe stato acquistato in Slovacchia da un uomo d’affari siriano residente in Turchia e contrabbandato in Libano attraverso la Siria; ipotesi in realtà macchinosa e francamente poco credibile, visto che i servizi di Damasco (e di Beirut) avrebbero evidentemente avuto a disposizione tutto l’esplosivo che volevano. Secondo la smentita, il “col. Sari” non ha mai lavorato per i servizi di Damasco ma è soltanto «un soldato di leva disertore ricercato per operazioni fraudolente», sposato a una libanese e “consegnato” alla commissione Onu dall’esponente druso Marwan Hamadè, oggi ministro e scampato l’anno scorso a un attentato a Beirut.
Come si vede per il giudice Mehlis di carne al fuoco, a Damasco come a Beirut, ce n’è anche troppa; resta da vedere se riuscirà davvero a dipanare questa intricata matassa, senza strumentalizzazioni (a Bush, come è noto, farebbe molto comodo avere Damasco sul banco degli accusati).