Libano: ancora una missione di guerra

Appare sconcertante, oltre che inaccettabile, persino più che nel voto per la missione in Afghanistan, la facilità con la quale l’intero centrosinistra e gran parte dell’area pacifista (o soi-disant tale) hanno approvato l’immissione di militari italiani nella guerra in Libano. Per l’Afghanistan qualche voto contrario in Parlamento ed un certo imbarazzo nelle aree pacifiste pur sottoposte alla “sindrome del governo amico” almeno si manifestarono: stavolta l’accettazione di una seconda missione bellica, travestita “more solito” da missione di pace, si accompagna quasi alla soddisfazione di chi si sente portatore di azioni virtuose. Già è sorprendente che coloro che tanto ci hanno ossessionato con la mistica della non-violenza integrale, del “mai neanche uno schiaffo”, e con lo spregio delle resistente armate – che con tutta evidenza sono il primario ostacolo alle mire imperialistiche Usa – oggi per due volte consecutive trovino naturale che truppe armate, e non civili o diplomatici, pretendano di imporre la pace. Ma c’è poi l’aggravante dell’invio di militari in un panorama bellico persino più esplosivo di quello afgano. Nessun membro del governo Prodi può ignorare la portata del conflitto libanese, collocato esattamente nel cuore della guerra permanente Usa: e il fatto che Israele non ha deciso di massacrare la popolazione libanese e di prendere di petto Hezbollah per recuperare due soldati, ma che ha fatto da braccio armato, persino stolido, alla volontà statunitense di destabilizzare totalmente la zona, di arrivare ad uno scontro diretto con la Siria e di mettere con le spalle al muro l’Iran, nella prospettiva del “grande Medio Oriente”, dal Mediterraneo fino alle porte di Cina e India, dominato dagli Usa, con in mano le chiavi energetiche del pianeta, mentre si delinea uno scontro mortale per l’egemonia globale con le nuove (e vecchie) potenze emergenti. Né è pensabile che il governo e i pacifisti colpiti dalla sindrome non abbiano percepito la grande novità di questo conflitto: e cioè che, contrariamente a quanto sempre successo, l’esercito israeliano si è dimostrato impotente di fronte alla guerriglia di una decina di migliaia di combattenti ben organizzati, armati decentemente e disposti a morire, seppur non in modo suicida, che hanno dimostrato di poter colpire Israele in modo ben più dirompente che con gli attentati suicidi. E’ questa sconfitta e l’evidente isolamento della barbara aggressione israeliana che hanno costretto Olmert all’accettazione del “cessate il fuoco”, assai di più della pur importante mobilitazione mondiale. Ma di fronte a tale sconfitta, due sono le ipotesi per il futuro: la prima, altamente improbabile, prevederebbe un salto di coscienza nella leadership israeliana sui rischi che il proprio paese corre nel nuovo scenario continuando a fare il “panzer” Usa, e la presa d’atto di inevitabili trattative per dare una vera patria ai palestinesi e per restituire territori al Libano e alla Siria; la seconda, assai più probabile, vede Israele seguire fino in fondo il progetto Usa di destabilizzazione della zona. In entrambi i casi la presenza di truppe Onu e italiane appare o inutile o altamente dannosa e provocatoria. Nel primo caso ciò che il governo dovrebbe fare è convincere Israele a trattare sul serio una pace stabile con i vicini; mentre nel secondo, quello nell’ordine delle cose, le truppe finirebbero, nel tentativo impossibile di fare il “lavoro sporco” che non è riuscito ad Israele, per essere utilizzate per dimostrare, pagandone il prezzo, “l’inaffidabilità” di Hezbollah, consentendo poi ad Usa-Israele di intervenire con una guerra a tutto campo e “alle fonti”. Perché dunque tanta “leggerezza” da parte del centrosinistra? La risposta è la stessa che per la missione afgana. Il governo si fa carico delle esigenze sub-imperialistiche del capitalismo italiano che, privo di ricchezze strategiche e di forza economica autonoma, ritiene di poter partecipare al banchetto liberista mondiale solo attraverso un ruolo politico “mediatorio” che richiede però un forte impegno militare. In quanto all’area governativa “non-violenta”, e al Prc in primo luogo, ci sembra che predomini la nefasta teoria della “riduzione del danno”, che qui si accontenta dei proclami sul non-disarmo di Hezbollah come per l’Afghanistan si affidava alla peregrina tesi della non-uscita da Kabul: in generale la linea appare quella del restare al governo a tutti i costi. In quanto, infine, a tanto pacifismo senza se e senza ma, abbiamo già detto della sindrome: ma in più (vedi Tavola della Pace) c’è il rilancio della micidiale teoria del “riprendiamoci l’Onu”, e persino un certo entusiasmo nell’illusione di un uso “buono” di uno strumento che oscilla senza scampo tra impotenza e piena subordinazione al dominio Usa. Per tutti coloro che, come noi, sono con la resistenza dei popoli e che ne vedono con soddisfazione crescere la forza e che vogliono contribuire al loro successo con la mobilitazione italiana ed europea no-war, si profila l’appuntamento deciso al Fse di Atene della settimana di iniziative tra il 23 e il 30 settembre (con manifestazioni nazionali sabato 30), anche con la ovvia proposta di estendere la piattaforma ai nuovi eventi libanesi.