L’eterno torto dei perdenti

Dagli al mostro! Essendo il mostro, beninteso, non Milosevic ma il popolo serbo. E’ a questa astrazione che si deve applicare la cura rieducativa. Certo un pochino “spuria”, nel senso che si tratta di una cura obbligata, a base di bastonate (leggi bombardamenti), e di carote (leggi: o fai come diciamo noi oppure puoi dire addio agli aiuti economici, al ritorno in seno alla comunità dei paesi civilizzati, che saremmo noi). Magari “prosaica”, nel senso che la si impone a colpi di milioni di dollari, ma pur sempre necessaria per “liberare dal veleno totalitario” il popolo serbo.

“Farmaco rieducativo – scrive ancora Barbara Spinelli – ingrediente non trascurabile della terapia di snebbiamento”. I metodi adoperati nelle scuole di rieducazione della rivoluzione culturale non dovevano essere molto diversi. Per esempio costringere i rieducandi a leggere a memoria il libretto rosso, o fargli digerire decine di ore di filmati dove venivano illustrate le nefandezze dell’ideologia borghese. Del resto “anche l’Europa distrutta dai nazionalismi e dai totalitarismi nazifascisti ebbe bisogno di questo prosaico antidoto”: denaro “a condizioni precise” insieme a rieducazione forzata, con “l’obbligo di guardare in faccia al male di cui si era stati capaci”. Ecco la “strategia rieducativa” delle forze occidentali di occupazione.

E furono appunto gli Stati Uniti, i nostri maestri imperituri, a “certificare con i loro dollari” se noi fossimo tornati alla “democrazia autentica”.
Che storia meravigliosa abbiamo alle nostre spalle! E di fronte a noi. Ed è più o meno quella che stiamo imponendo ai serbi. Incluso Kostunica, che appena eletto “democraticamente”, è già diventato inadeguato. Ci serve, per rieducare i serbi, non lui ma Djindic, che pure flirtò a suo tempo con Karadzic, ma ce lo siamo dimenticati. E con ragione, perchè Djindic non ha paura di sporcarsi le mani, “prosaicamente”, con “il denaro che si riceve a precise condizioni”, che è “forse spurio ma non vile, infetto”.

L’altra sera guardavo in tv “I tre giorni del condor”: l’ultima scena in cui l’agente della Cia spiega al “condor” idealista – che non l’aveva capito – come l’Agenzia fosse là per impedire che tra dieci anni, “quando non ci sarà più benzina, o non ci sarà più da mangiare”, si debba spiegare “a coloro che hanno sempre avuto tutto” che è giunto il momento di tirare la cinghia, o di consumare meno, o di inquinare meno l’ambiente naturale. Straordinaria attualità. Anche per i predicatori di morale. Come quel Lester Thurow che, in piena guerra del Kosovo, tuonava dalle colonne di Repubblica che i serbi avrebbero dovuto essere chiamati a rispondere collettivamente dei loro crimini. E a me veniva in mente che anche noi potremmo (anzi dovremmo) essere chiamati a rispondere collettivamente (ma di fronte a quale tribunale, se siamo noi stessi a costruire i tribunali a nostra immagine e somiglianza?) del nostro mostruoso egoismo e del fatto che ogni quindici secondi un bambino muore di fame o di sete proprio a causa, direttamente, mostruosamente, del nostro egoismo. Oppure non valgono per quei bambini le regole morali che valgono per quelli del Kosovo? Come del resto non valsero per quelli della Cecenia che, chissà perchè? viene ora addebitata a Vladimir Putin (perchè non è stato eletto con i dollari americani), mentre si dimentica che fu opera, prima di tutto, di quel Boris Eltsin campione della democrazia e del mercato occidentali.

Personalmente non ho nulla in contrario al “temprare lo scettro ai regnatori”, sebbene mi sembri impresa poco gloriosa quella di elevare loro ditirambi in ogni occasione. Ma almeno lo si facesse con l’idea di sfrondarne gli allori e alle genti mostrare di che lacrime grondino e di che sangue. Invece niente. I nostri commentatori sembrano diventare ingenue mammolette quando, dopo le invettive, si tratta di cercare le spiegazioni. Mammolette mute, poi, quando le spiegazioni diventano imbarazzanti, e quando non si sa più bene da che parte tiri il vento.

Enzo Bettiza concludeva l’altro ieri il suo editoriale su La Stampa definendo Kostunica un “nazionalista ondivago”, contrapposto a un “decisionista pragmatico” che vorrebbe liberarsi definitivamente del criminale ingombrante e conquistare, con l’aiuto dell’Occidente, tutto il potere. Viva la franchezza. Ma se questo è vero, come credo, allora dovremmo chiederci se questa operazione corrisponda, ad esempio agl’interessi europei in particolare. Io vi vedo invece due cose che meriterebbero attenzione.

La prima è la ripetizione pura e semplice dell’errore che gli Stati Uniti, dieci anni fa, commisero nei confronti della Russia. Volevano fare in fretta e hanno fatto un disastro, le cui conseguenze sono ancora in gran parte da venire. L’imperatore è giovane e non ha esperienza. Dovremmo dirglielo prima che combini altri guai, invece di baciargli le dita dei piedi restando in silenzio. Le correnti della storia sono lente e non suscettibili di forzature volontaristiche o rivoluzionarie. In questo campo non esistono “distruzioni creative”. Le distruzioni sono soltanto distruzioni.

Non suggerisce niente ciò che sta accadendo attorno al Kosovo dopo la “guerra umanitaria”? Non induce alla riflessione il fatto che i focolai di guerra siano ora divenuti quattro (Kosovo, Bosnia, Macedonia, Montenegro) e si apprestino a divenire cinque, con l’ingresso sulla scena della Vojvodina? Adesso che il diavolo è stato esorcizzato, chi ci apprestiamo a demonizzare?

La seconda considerazione riguarda i venti che tirano nella capitale dell’impero. Laggiù, nel paradiso, si stracciano i trattati, si prendono decisioni senza consultare i vassalli, ci si preoccupa delle sorti dei sudditi propri, ignorando quelle dei sudditi altrui. E’ chiaro che mi riferisco a Kyoto, allo scudo stellare nazionale, alla crisi jugoslava ecc. Ma anche all’inasprimento dei rapporti con la Russia, con la Cina, all’abbandono di Kim Dae Jung mentre dialoga con il capo del nord, Kim Jong Il. Il tutto in un quadro di crisi economica e finanziaria internazionale di cui gli Stati Uniti sono diventati improvvisamente il focolaio principale.

L’imperatore non è affatto isolazionista. Non lo è mai stato e meno che mai lo sarà. Interviene, agisce, spesso pesantemente, come gli pare. Solo che non finge nemmeno più di farlo nell’interesse comune. Allora varrebbe la pena di leggere i suoi gesti, tutti, anche sotto questa luce.

Ma forse l’imperatore ha bisogno non solo della vittoria. Gli serve anche la vendetta. E la sanzione. Perchè il segnale arrivi non solo ai perdenti di oggi, ma a coloro che potrebbero eccepire in futuro.