Solo il 6% si sposa e ha figli. Il mutuo? Un miraggio
La metà degli occupati nei servizi non è più a tempo indeterminato contro l´11% dell´industria e il 17 del commercio
Sempre più difficile uscire dal tunnel dei contratti a termine: sta diventando una condizione sociale permanente
Molti di loro sono arrivati ai 50 anni e sanno che prenderanno una pensione ridicola
Per il 75% meno di mille euro al mese.
Rita, Chiara, Silvia fanno parte del popolo in espansione dei precari, italiani a vita dimezzata, condannati ad un lavoro flessibile che non hanno scelto. Un fossato sempre più difficile da scavalcare li divide dagli altri italiani, i garantiti, titolari di un posto fisso. Una casta a parte, con meno diritti degli altri: una versione light, all´italiana, degli «intoccabili» indiani.
Se, dieci anni fa, il mercato del lavoro italiano era troppo rigido, oggi la flessibilità è arrivata ovunque. Due milioni e mezzo di persone, un quarto dei lavoratori dipendenti, ha un contratto atipico, cioè diverso da quello standard, a tempo indeterminato, dice l´Istat. Soprattutto, metà dei nuovi assunti, fra il 1993 e il 2003, è inquadrata come atipica. A Milano, oggi, secondo il Censis, sono precari 81 lavoratori su mille, a Roma 62. Come capita spesso, anche quella della flessibilità è stata una riforma volta all´indietro, pensando ad un mondo in via di rapida obsolescenza: concepita per l´industria, è esplosa nei servizi, dove il precariato si prolunga più facilmente. Anche escludendo il part time, l´Isae registra che l´11 per cento degli addetti all´industria, il 17 per cento di quelli del commercio, ma il 49 per cento dei dipendenti nel settore dei servizi hanno un lavoro a scadenza, come le bottiglie del latte. Un modo per consentire più facilmente ai giovani l´accesso al mondo del lavoro, una fase di rodaggio prima del posto fisso? Per molti non è affatto così. Due terzi dei precari intervistati in un recente sondaggio Eurispes non ha mai avuto un contratto che non fosse atipico. E questo vale per oltre il 60 per cento di quelli che hanno fra 26 e 39 anni. Atipico non equivale a giovane all´inizio: un precario su tre lo è da 5, 10 anni.
E´ difficile far rientrare Simone in questo mondo. «Sono un precario volontario» annuncia risoluto. Prodigio del computer già a sei anni, ha lasciato presto una università che gli ripeteva solo cose che già sapeva. Programmatore, si è creato una reputazione come creatore di siti Internet. A 26 anni, ha una attività avviata, che gli vale 80-100 mila euro l´anno. «Un posto fisso non lo voglio e ne ho rifiutati tanti. Voglio essere riconosciuto, qui e ora, per quello che valgo e questo è impossibile nelle alchimie e negli equilibri aziendali fra colleghi. Voglio gestire il mio tempo come mi pare, lavorare di notte, se mi va. Per questo lavoro a progetto, mai – se posso – a ore: lo trovo avvilente. Uno, a ore, finisce per fare solo il minimo indispensabile. Voglio poter esprimere fino in fondo la mia creatività, senza il vincolo di dover tener conto di quello che l´azienda ha fatto finora o pensava di fare».
Per Simone e gli altri come lui, il precariato ha il fascino della sfida personale e l´attrazione dell´opportunità: nel sondaggio Eurispes, l´83 per cento dei precari con laurea ha sempre avuto solo contratti atipici e lo stesso vale per il 56 per cento di quelli con un master in tasca.
Sono i precari di lusso. Quella dei precari volontari è, però, una fascia sottile. La stragrande maggioranza degli atipici guadagna poco: tre quarti prendono meno di mille euro al mese. Quattro su cinque, dice l´Eurispes, non ritengono il precariato un´opportunità di arricchimento professionale. Chiara lavora con un contratto a progetto annuale. Da quattro anni e mezzo si trova a rinnovare il contratto ogni anno. Sempre con lo stesso datore di lavoro. Non è strano: il 60 per cento dei precari lavora con la stessa azienda da più di un anno, un quinto da più di 3 anni. Altro che rodaggio temporaneo: metà di questi ultimi hanno alle loro spalle un´esperienza professionale di più di dieci anni. E´ quello che teme Chiara: diventare una precaria permanente.
Rita è più di una precaria permanente: è una precaria storica, in bilico da 17 anni. Anzi, il termine è nato con lei e con le migliaia di eterni supplenti della nostra scuola, fortunati se incassano un intero anno scolastico, con lo stipendio da ottobre a giugno, in peregrinazione perenne da una scuola all´altra. «Devi essere forte nella dignità, come docente e come persona, altrimenti vieni schiacciata. Ci chiedono – dice – di insegnare a pezzetti. Non puoi progettare nulla, portare avanti i ragazzi per un triennio, crescere, umanamente e culturalmente, insieme a loro». Richard Sennett, l´autore del famoso «L´uomo flessibile», ha scritto: «Come può un essere umano sviluppare un´autonarrazione di identità e una storia della propria vita, in una società composta di episodi e frammenti?» Quando cito queste parole a Silvia – lavori a pezzi e bocconi, tre mesi qui, tre mesi ferma, poi sei mesi lì, lavori sempre diversi – mi regala lo stesso sguardo insofferente dell´indimenticabile scena morettiana di «Ecce Bombo», quella di «Sì, vabbè, ma le sigarette come le compri?». «Sì, vabbè, ma io volevo fare un figlio» dice Silvia. Solo il 6,5 per cento dei precari dell´Eurispes ha figli. «A 34, 35 anni – dice Rita – ho capito che non avrei potuto permettermi un figlio. Ora che ne ho 49, se mi guardo indietro capisco che avevo ragione». Solo il 10 per cento può esibire un matrimonio, una convivenza, anche un divorzio. «Metter su famiglia? Assolutamente neanche da pensarci» dice Chiara, anni 32. Metà dei precari, del resto, anche quelli con più di 32 anni, ha difficoltà semplicemente ad andare via da casa.
Dice l´Istat che il numero di figli over 30 che vivono ancora con i genitori è cresciuto di un quarto in dieci anni, fino a sfiorare il 40 per cento. Anche per gli ultratrentacinquenni siamo al 17 per cento, uno su sei. Eppure, tre quarti di loro un lavoro ce l´ha. Precario, probabilmente. C´è chi li ha definiti «mammoni». Molti, forse, per dirla con l´Eurispes, sono solo «intrappolati nel ruolo di eterni Peter Pan». «Comprar casa? Certo che ci ho provato» dice Rita: «Ma alla mia banca, la Banca delle Marche, mi hanno mandato via». Il 71 per cento dei precari dichiara difficoltà ad ottenere un mutuo immobiliare. «Alla fine – ricorda Chiara – una banca l´avevo trovata. Ma anticipavano meno capitale e chiedevano un tasso più alto di quello normale». Che differenza può fare il cedolino di una busta paga regolare: la maggioranza dei precari dichiara difficoltà anche a stipulare un normale contratto d´affitto, perché non può esibire la prova di un costante introito mensile. «Una mia collega – racconta Rita – alla fine si è trovata a pagare 450 euro al mese, l´affitto di un modesto appartamento, ma per una sola stanza, in casa altrui. A 47 anni, come una studentessa».
Solo il 70 per cento dei precari incassa con regolarità lo stipendio ogni mese. Quasi un terzo viene pagato ogni 2-3 mesi, oppure a consegna del progetto, o anche in modo del tutto erratico. L´impossibilità di fare progetti non riguarda, dunque, solo cosa succederà quando scade il contratto: per molti è anche cosa succederà a fine mese. Questo senso di vulnerabilità arriva a lambire anche il top, come Simone. «Una nuova macchina mi piacerebbe, ma, francamente, non sono disposto a far fuori il 40 per cento di quello che ho in banca». Anche le sue vacanze di agosto, programmate in Egitto, sono venate di inquietudine: «In linea di principio, i soldi ce li ho. Però – ammette – potrei avere problemi di liquidità, visto che li devo ancora incassare». «Ma quale vulnerabilità» sbotta Rita: «una può essere anche pazza e pensare di comprare chissà cosa. Tanto le possibilità non te le danno». La parola proibita è rate. Il 41 per cento degli italiani dichiara che le rate sono fondamentali per fare i suoi acquisti: l´auto, il frigorifero, il computer. Ma, per centinaia di migliaia di precari, è un passaggio bloccato. Solo il 4-5 per cento di loro riesce ad accedere a quello che le statistiche chiamano credito al consumo. Senza il cedolino della busta paga regolare, quasi nessuno si azzarda a fare un prestito. Le finanziarie che lo fanno non riempiono le dita di una mano. Quando lo fanno, un credito di 5 mila euro a 24 mesi ha un interesse vicino al 15 per cento. «Per comprare il letto dove dormo – racconta Rita – ho dovuto presentare la busta paga di un amico. Neanche l´abbonamento annuale all´autobus sono riuscita a fare: per rateizzarmi quelle 360 mila lire, l´Atac voleva il cedolino».
Una vita dimezzata, per cittadini di seconda categoria. Molti hanno abbandonato la speranza di saltare il fosso, di approdare ad una vita lavorativa di serie A. Tanti non riescono neanche ad immaginare la conclusione della loro serie B. Due terzi pensano che la loro pensione sarà insufficiente per una vita dignitosa. Una buona fetta è convinta che una pensione non ce l´avrà comunque, sufficiente o meno. Difficile immaginare il futuro, quando non si riesce a costruire il presente. «La gente – dice Rita – ti identifica attraverso il lavoro che fai. Precaria, dico. Ancoraaa? Mi rispondono. C´ho messo tempo a capire che non era colpa mia».
(fine – le precedenti puntate sono state pubblicate il 13 e il 15 giugno)