L’eredità contesa del ritiro da Gaza e i nuovi scenari palestinesi

Il primo ritiro operato da Sharon alimenta divisioni nel governo di Tel Aviv e tra le formazioni nei Territori occupati. Hamas reclama la «vittoria» e rilancia le minacce contro Israele e la stessa Anp. Mubarak verrà in aiuto di Abu Mazen?

Man mano che passano i giorni, il polverone mediatico sollevato intorno al ritiro israeliano da Gaza si va diradando e vengono alla luce gli interrogativi, le riserve e i dubbi sollevati da più parti e soprattutto in casa palestinese. Episodi come gli espropri di terre intorno alla colonia di Ma’ale Adunim e il sanguinoso raid dei reparti speciali israeliani a Tulkarem vengono, infatti, a indebolire la posizione dell’Anp e del suo presidente, dopo le esplicite aperture al gesto di Sharon, e a dare ragione (almeno nell’immediato) a chi accusa il premier israeliano di avere organizzato lo show di Gaza per nascondere i suoi piani annessionistici sulla Cisgiordania; lo stesso Mahmud Abbas si vede così costretto a prendere le distanze e a rialzare il tiro contro la politica del governo di Tel Aviv.
Sul tutto pesa anche il clima determinato in Israele dalla pratica certezza che si andrà a elezioni anticipate, nelle quali Sharon si giocherà in modo definitivo la sua carriera politica. Spiegare tutto con la campagna elettorale già apertasi di fatto e con la necessità per il premier di parare i colpi che vengono da destra e di preparare il terreno alla possibile nascita di un suo partito personale alternativo al Likud sarebbe però troppo facile e troppo semplicistico.

Il che vale anche per l’atteggiamento del partito laburista, entrato a suo tempo nel governo «di unità nazionale» proprio per rendere possibile il ritiro da Gaza, ma che ha sempre considerato quest’ultimo come un primo passo per il rilancio della “road map” e del negoziato. Adesso dunque una eventuale uscita dal governo potrebbe certo essere dettata dalla volontà di approfittare delle difficoltà di Sharon e dello schieramento di destra, lacerato al suo interno, ma avverrebbe anche in coerenza con la posizione di incoraggiamento al negoziato. Anche se i precedenti del fallimento del governo Barak e della partecipazione di Peres e compagni al primo governo Sharon nel 2001-2002, per limitarci al periodo più recente, gettano non poche ombre sulla limpidezza della posizione laburista.

A tutto questo fanno riscontro le difficoltà che si registrano all’interno dei territori e della società palestinesi, soprattutto nel rapporto tra l’Anp da un lato e Hamas e gli altri gruppi radicali dall’altro. Che le formazioni palestinesi non abbiano nessuna intenzione di deporre le armi era già noto, tanto più se Hamas vuole continuare a presentare il ritiro da Gaza come una sua vittoria: e dunque le richieste, anche energiche, di Mahmud Abbas e le pretese e minacce di Sharon hanno ricevuto fin dall’inizio una risposta in diverso grado polemica.

Ora però il movimento islamico scende in campo in modo ufficiale e lo fa, non a caso, per bocca non di un dirigente politico o di un portavoce per quanto autorevole, ma dell’uomo più odiato e più ricercato da Israele, vale a dire Mohammed Deif, capo delle Brigate Ezzedin el Qassem (braccio armato del movimento) alla macchia dal 2003, dopo essere sfuggito per un soffio ad uno degli «assassinii mirati» di Sharon. Dopo l’uccisione dello sceicco Yassin e di Abdelaziz Rantisi, Deif è di fatto per gli israeliani l’obiettivo da colpire «numero uno». Ebbene, Deif ha lanciato ieri un doppio avvertimento sia a Sharon che ad Abbas, naturalmente in termini diversi.

Dopo aver definito il ritiro da Gaza una «umiliazione» per Israele e «un trionfo della pura resistenza armata palestinese», Deif dichiara che «le armi che hanno liberato Gaza debbono essere impiegate per liberare il resto della nostra patria occupata»; e dunque «tutta la Palestina diventerà un inferno per gli israeliani».

Al di là della retorica e delle espressioni altisonanti, va detto che al fondo non c’è differenza sostanziale fra il giudizio di Hamas e quello di Abbas: anche per il presidente dell’Anp il ritiro di Gaza ha valore solo se sarà seguito dal ritiro dalla Cisgiordania e da Gerusalemme-est; ma la differenza radicale sta nel metodo con cui questo obiettivo va perseguito. E proprio qui si inserisce l’avvertimento di Hamas «ai fratelli dell’Autorità palestinese»: «le nostre armi – egli dice – rimarranno nelle nostre mani, dobbiamo mantenerle levate, congiuntamente al lavoro sul piano politico; mettiamo dunque in guardia tutti coloro che cercheranno di toccarle e di muoverci». Come dire all’Anp: non provate a disarmarci e a metterci fuori gioco.

Naturalmente Abbas sa benissimo quali rischi comporti una prova di forza sul campo con gli islamici ed è ben deciso a evitare un rischio di guerra civile; tuttavia sa anche (o almeno spera) che difficilmente Hamas spingerà per uno scontro prima delle elezioni politiche palestinesi del gennaio 2006 e quindi si accontenta, forse per ora, che non vengano compiuti attacchi contro Israele a partire dal territorio di Gaza.

E qui il presidente dell’Anp conta probabilmente sull’aiuto dell’Egitto, direttamente coinvolto nella «gestione» del dopo-ritiro a Gaza e adesso al centro di una vera e propria «bomba politica»: la tv spagnola Abc, citando fonti egiziane e palestinesi, ha infatti rivelato ieri che il presidente Mubarak potrebbe compiere a novembre un viaggio in Israele con un discorso alla Knesset (sulla falsariga del viaggio di Sadat nel 1977) per recarsi poi in visita anche a Gaza. Forse è solo una boutade elettorale (il 7 settembre ci sono al Cairo le presidenziali), ma forse è qualche cosa di più un tentativo del «raìs» di dare una mano ad Abbas, di rilanciare il rapporto con Israele e di compiere un gesto gradito all’Amministrazione Usa che nel recente passato si è mostrata fredda nei suoi confronti. Quali che fossero le intenzioni di Sharon, insomma, il ritiro da Gaza ha comunque messo in moto un processo dagli sviluppi soltanto in parte prevedibili.