L’energia di Bush

L’argomento ha la forza della semplicità. L’America (intesa come Stati uniti) è sull’orlo di una crisi energetica, o almeno è questo che il presidente George W. Bush sostiene con la forza delle cose evidenti: i black-out in California, la benzina venduta a quasi 2 dollari il gallone (pari a quattro litri e mezzo, dunque meno di 1.000 lire al litro, che per gli statunitensi è un prezzo scandalosamente alto). Tutto dice che l’offerta non tiene il passo della domanda: dunque bisogna produrre più petrolio, raffinare più benzina, bruciare più carbone, generare più elettricità nucleare.
E’ questa l’essenza del piano energetico nazionale annunciato ieri dal presidente Bush, in un discorso tenuto a St.Paul (la città gemella di Minneapolis, in Minnesota). Nulla di quanto ha detto ieri Bush è una novità assoluta, poiché il suo piano energetico è stato ampiamente anticipato negli ultimi giorni. Ma ora il quadro è completo, e sono chiari gli argomenti con cui la Casa Bianca intende “venderlo” agli americani. “Nell’anno 2001 l’America è di fronte alla penuria di energia più grave dall’epoca degli embarghi petroliferi degli anni ’70”, afferma Bush, che ha parlato di “un decennio di stagnazione” energetica.
E se si tratta di crisi nazionale, ecco che tutto si spiega e si giustifica. Bisogna produrre più idrocarburi, ha detto il presidente; dunque chiederà al segretario agli interni di studiare come aprire i territori di proprietà federale alla perforazione di pozzi petroliferi e di gas naturale, incluse le aree protette – inclusa la Alaska Wildlife Reserve (il più grande e importante parco naturale in Alaska). Bush ha affermato poi che la nazione ha bisogno tra 1.200 e 1.800 nuove centrali energetiche (a carbone, nucleari o altro) in vent’anni, e dunque chiederà di “alleggerire” le normativa sulla raffinazione, l’estrazione del carbone, la costruzione di centrali atomiche. Infine ha annunciato che chiederà sgravi fiscali (per 10 miliardi di dollari in 10 anni) per chi usa veicoli con standard più elevati di efficenza (più chilometri per litro di carburante), o per i motori “ibridi” che vanno a gas e elettricità, e per chi adotta pannelli solari sugli edifici. Pare che il capitolo dell’efficenza energetica sia stato aggiunto in extremis.
Il piano energetico annunciato ieri – un rapporto di 163 pagine – è stato scritto da una “task force” presieduta dal vicepresidente Dick Cheney, che ne è il vero ispiratore. E sarà probabilmente l’oggetto della prima forte battaglia politica, poiché il Congresso intende discuterlo in aula in giugno e approvarlo prima della pausa del 4 luglio (la festa dell’indipendenza Usa). I primi commenti fanno pensare che il dibattito sarà acceso: “Abbiamo un’amministrazione più preoccupata dei profitti delle grandi aziende petrolifere che delle famiglie lavoratrici americane e il loro reddito”, ha commentato il presidente del comitato nazionale democratico Terry McAuliffe.
Se questa è la battaglia che si annuncia, vale la pena di vedere alcuni dettagli. Primo, il nucleare. Per incoraggiare gli investimenti, ha spiegato Cheney, la Casa Bianca proporrà diversi incentivi. Ma soprattutto chiederà di rinnovare la norma che solleva le aziende gestori di impianti nucleari dalla responsabilità civile illimitata in caso di incidente (si tratta della legge Price-Anderson, in vigore ma solo fino al 2002: prevede che in caso di incidenti gravi, con danni che eccedono i 200 milioni di dollari, la responsabilità sia suddivisa su tutta l’industria nucleare, e lo stato copra i costi eccedenti i 9,5 miliardi di dollari). Questa norma va rinnovata (cioè rifinanziata con soldi pubblici), ha detto Cheney martedì scorso, “altrimenti nessuno investirà in impianti nucleari”. In effetti sono i costi della sicurezza che hanno reso il chilowattora di origine nucleare non competitivo, ed è per questo che stagna il nucleare negli Usa: non si progettano nuovi impianti dal famoso incidente di Three Miles Island (Pennsylvania), dove fu sfiorato il melt down (la fusione del nocciolo del reattore), cioè una catastrofe che avrebbe coinvolto tutto il continente nord americano. Era il 1979. Ma quella paura è acqua passata, “credo che la gente oggi sia molto più razionale”, ha detto Cheney: il nucleare “è sicuro, la tecnologia migliora, e poi non emette gas di serra”. I 103 reattori funzionanti oggi negli Usa producono circa il 20% dell’elettricità del paese. Se l’esenzione dalla responsabilità civile sarà estesa nei prossimi anni, il primo effetto non sarà forse la costruzione di nuove centrali (che resta un affare costoso) ma più probabilmente di allungare la vita operativa di quelle esistenti.
Secondo, le nuove centrali energetiche. Bush chiederà all’Agenzia per la protezione ambientale (Epa, il suo ministeo dell’ambiente) di studiare se non sia il caso di abrogare la norma che impone a raffinerie e centrali energetiche di usare la migliore tecnologia disponibile: le aziende petrolifere e i gestori delle centrali lamentano che questo alza troppo i costi e impedisce di aumentare la produzione. Bush chiederà poi 2 miliardi di dollari in 10 anni per sviluppare nuove tecnologie per centrali a carbone.
Parte delle prime critiche al piano di Bush sono sul fatto che tutto questo non servirà nell’immediato ad abbassare il prezzo della benzina o a evitare i black out in California (il governatore californiano Gray Davis sostiene che la crisi è provocata dall'”avidità delle corporations” e ha annunciato per ieri sera una polemica conferenza stampa per commentare il piano della Casa Bianca). Eppure la raffinazione di carburante è già aumentata: mercoledì l’American petroleum Institute ha riferito che in aprile le raffinerie del paese hanno lavorato 8,37 barili di petrolio al giorno, un record. L’industria privata ha già cominciato a mettere miliardi nello sviluppo di nuovi impianti petrolchimici e nuove centrali, fa notare un servizio del Christian Science Monitor, senza aspettare il piano energetico della Casa Bianca. Così gli analisti finanziari prevedono che il prezzo del carburante abbia raggiunto ormai il picco e cominci a scendere da giugno. Più a lungo termine, l’industria petrolifera Usa progetta di espandere i budget per le esplorazioni e la produzione del 19% quest’anno (senza dubbio contava su un’amministrazione simpatetica). Le centrali che Bush ha annunciato ieri dunque sono già in fase di progettazione: nei prossimi due anni entrerà in funzione una capacità generativa di 75.000 megawatt, più che nei dieci anni precedenti.
Infine, il consenso. La proposta della Casa Bianca potrebbe del resto trovare un alleato imprevisto in una parte dei sindacati. Così si capisce dalla riunione avuta lunedì scorso dal vicepresidente Cheney con i dirigenti di alcuni sindacati: ovvero i Teamster (i trasportatori) e 16 unions delle costruzioni. Jimmy Hoffa jr, il boss dei Teamster, è uscito commentando che Cheney ha promesso “una straordinaria quantità di posti di lavoro”: almeno 700mila (di cui 25mila per membri del suo sindacato) già solo con i pozzi nella riserva naturale in Alaska, e poi 1.500 posti per ogni nuova centrale. Il gioco è fatto?