Lemmi in ordine sparso per una storia ancora irrisolta

È in libreria il il primo volume (A-L) del Dizionario del comunismo nel XX secolo, a cura di Silvio Pons e Robert Service (Einaudi, pp. 536, euro 68). Nella introduzione si legge che il comunismo è stato una componente integrale del ventesimo secolo e che «malgrado la frammentazione, la crisi e il declino, il senso di appartenenza a una vicenda e a una realtà comune non venne mai meno». Dal Dizionario, però, non viene fuori «qual è la vicenda», un po’ perché non è un libro di storia e un po’ perché non si è cercata una chiave interpretativa omogenea. D’altronde, sono forse pochi i venti anni trascorsi dal 1989, cioè dalla fine dell’esperimento sovietico, identificato nel senso corrente con il comunismo, per fare questa operazione. Manca innanzitutto la distinzione tra il comunismo come prospettiva politico-sociale del pensiero politico europeo del Settecento e dell’Ottocento e le sperimentazioni del Novecento, ispirate a quella prospettiva. Prima tra esse l’esperienza dell’Urss.
I curatori consigliano per un bilancio generale i libri del polacco-americano, appassionatamente anticomunista, Zbgniew Brzezinski e dell’ex comunista francese François Furet. È come se il comunismo fosse in questione solo per gli intellettuali attratti nella sua rete. Irresistibile è per costoro squarciarla per reintegrarsi nel proprio ambiente, nella propria origine sociale, in una cultura conformista, in una politica senza radicalismi e senza utopie. In tale contesto il Dizionario del comunismo nel XX secolo non è nemmeno tanto fondamentalista pur essendo evidente l’intento di molti degli autori di riscattarsi dagli errori di gioventù. Non è insomma un altro «Libro nero del comunismo». E i collaboratori italiani sono un case study del rapporto tra intellettuali «comunisti» e il Pci.
L’abiura dell’utopia
Nel caso specifico il rapporto nacque nelle aule dell’università per il carisma di professori con la tessera del partito che li aveva messi su the wrong way. Che li aveva interessati all’Unione Sovietica assegnando ricerche e tesi. L’interesse al partito comunista italiano ne era venuto in parallelo per coerenza di studi e non «come scelta di vita» come era accaduto negli anni Trenta. Lontanissimi dunque dall’antropologia sociale del movimento operaio italiano, carattere distintivo del più forte partito comunista europeo. Un carattere destinato ad allentarsi via via che nei luoghi del partito arrivavano funzionari senza legami con le radici originarie e spesso con il disincanto verso di esse. Via dai miti delle lotte operaie e delle battaglie contadine, dall’antagonismo verso gli avversari politici e dalla subalternità ideologica verso l’Unione Sovietica. E chi meglio dell’ultima leva di «sovietologhi» poteva contribuire a liberare il partito dai legami che ancora univano gli iscritti e gli elettori d’estrazione popolare alla rivoluzione russa? E dunque l’impegno scientifico è quello di liberare dalle identità originarie del Pci l’offerta politico-culturale di chi si avvicina al partito democratico in fieri.
L’operazione ha una sua ratio. È l’uscita dall’utopia, l’abbandono del principio-speranza di una alternativa al capitalismo attraverso la diagnosi degli errori della prima società, influenzata da quella utopia. D’altro canto l’uscita dall’utopia è positiva se la porta alle spalle non viene sbattuta con risentimento e con la scelta di assumere come sacrosanto il punto di vista degli antichi avversari. E dunque a non salvare nulla del punto di vista comunista originario, anzi a negarne l’esistenza, a vergognarsene. La vergogna di aver scelto il comunismo come identità politica è un sentimento diffuso tra gli intellettuali. Tanto grave sentono il proprio errore quanto grande la responsabilità di chi glielo ha fatto commettere, gli uomini dell’esperimento sovietico, da Lenin a Gorbaciov.
Infatti il senso di appartenenza ha paradossalmente riguardato più i fatti sovietici che la realtà del proprio paese, con i suoi conflitti sociali asprissimi, le sconfitte, i successi, l’offensiva padronale, la fine della centralità operaia, il declino del partito. Ben poco interesse per tutto ciò e invece occhi vigili sulla condizione degli intellettuali nel mondo sovietico. Un attacco a un poeta polacco contava molto più di una sconfitta operaia alla Fiat.
Tra ideologia e «scienza»
Il Dizionario rispecchia questo approccio nelle scelte e nell’attribuzione delle voci ai collaboratori, italiani e stranieri. Vero è che c’è qualche differenza tra le voci «scientifiche» che riguardano gli eventi e le voci «ideologiche» che descrivono i protagonisti dell’esperimento. Prima fra tutte si fa apprezzare la voce Economia di comando di Robert W. Davies, il saggio rappresentante della scuola inglese, aliena da crucifige. Anche in «alfabetizzazione» a «lavoro», «centralismo democratico», «contadini», «collettivizzazione», «lotta di classe» il lettore trova correttezza scientifica.
Non è così per tutte le voci. Per esempio Antisemitismo è di una ambiguità disperante. Ancora una volta è mancato il buon senso di raccontare le cose come sono andate. Gli ebrei russi hanno vissuto dal 1917 al 1967 la stagione del proprio riscatto dall’oppressione zarista: fuggiti o discriminati amministratori e tecnici d’estrazione borghese, essi li avevano sostituiti, dal potente Kaganovic al fianco di Stalin, sino ai dirigenti di fabbriche, ministeri, mass media, campi di lavoro. I funzionari e gli intellettuali ebrei, perseguitati negli anni Trenta, lo furono in quanto pretesi avversari politici e non in quanto ebrei. (Se non avesse abiurato alla grande il suo passato familiare, lo potrebbe testimoniare il sociologo della Luiss Viktor Zaslavski, tra gli autori del Dizionario, il quale è il nipote di un terribile caporedattore della «Pravda letteraria», mentre la madre dirigeva le strutture sanitarie di Leningrado e il padre era in disgrazia come seguace di Bucharin: una famiglia tipica della nomenklatura sovietica). Una tale stagione è durata sino all’arrivo della prima generazione di tecnici d’estrazione popolare. Sono cominciate allora concorrenza e emarginazione e nonostante ciò ancora nel 1967 gli ebrei, che erano il 2% della popolazione, vantavano il 15% dei laureati. La rottura politica è arrivata nel 1967 con «la Guerra dei sei giorni» mentre il caso della «congiura dei dottori ebrei» del 1952 rientra nell’alveo delle lotte di potere dei successori di Stalin.
L’ambiguità per la voce Antisemitismo è stata forse sin troppo esemplificata perché rispecchia il metodo usato in molti casi, alcuni francamente ridicoli. Ridicolo è tacere ancora sull’assassino di Kirov, il dirigente di Leningrado ucciso nel 1934 dal marito della sua amante e non da Stalin, come volle far credere Chruscev, nel corso della faida interna al partito negli anni Trenta.
I nuovi ex sovietologi, storici professionisti, cadono ancora nell’approccio ideologico del dire e non dire. Lo prova gran parte delle voci che descrivono i dirigenti responsabili dell’esperimento sovietico. A cominciare da Lenin. L’autore è Robert Service, biografo di Lenin, ospite nel passato di convegni sul futuro dell’Urss, organizzati in ambiti accademici ma sostenuti munificamente dal partito delle regioni rosse. All’epoca per lui sarebbe stato una vera scortesia presentare Lenin come fa nel Dizionario: il teorico che mischia il marxismo europeo al socialismo agrario russo e «persino alla tradizione ecclesiastica che dava alla Russia un destino universale»; il politico cui addebitare l’errore di ogni scarto dalla via socialdemocratica dal 1895 al 1924. Non accredita alla capacità politica di Lenin nessuna iniziativa, neppure la pace separata con la Germania che permise alla Russia di soppravvivere, neppure la «nuova politica economica» che sosteneva la crescita capitalistica come fase necessaria per la transizione al socialismo. Al contrario gli imputa tutto «l’armamentario filosofico a sostegno della dittatura, del terrore, della certezza ideologica, dell’ottimismo e dell’amoralità rivoluzionaria». La voce termina con «fu tra gli uomini che forgiarono la storia del XX secolo», ma il lettore è stato portato a chiedersi se era preferibile Lenin non fosse mai nato.
È andata meglio agli altri protagonisti. Da Bucharin a Gorbaciov gli autori si attengono semplicemente alla versione conformista corrente prevalente tra gli studiosi dell’Urss. Raccontano quello che conviene far saper senza spiegare i perché e i come delle giravolte dell’esperimento. Fanno curiosamente eccezione i casi Beria e Breznev. A Beria si riconosce di aver aperto le prime porte dei campi di lavoro pochi giorni dopo la morte di Stalin e il fatto che da dirigente politico era per le vie nazionali al socialismo in Europa orientale (Imre Nagy fu sua creatura). Breznev è ricordato come il leader che favorì la crescita del tenore di vita e il «vivi e lascia vivere». Gli autori sono russi e riportano fatti noti agli specialisti che solitamente li tengono per sè. È bene che la rottura del conformismo cominci dai russi. Forse è proprio nella Russia di oggi che stanno venendo su studiosi che dall’apertura degli archivi si aspettano non conferme delle proprie private scelte politico-intellettuali ma la storia dei loro padri e del loro paese.
È una storia dove va ancora chiarito il rapporto di causa ed effetto tra comunismo e esperimento sovietico, e tra la strategia e le politiche di Lenin e la costruzione del socialismo in un paese solo di Bucharin e Stalin. Sono da capire volte e giravolte dell’esperimento, prima riconducibili a Stalin e poi a Chruscev. È l’esperimento in quanto tale che va ricondotto al centro dell’analisi. Perché l’esperimento nei suoi successi e nel suo fallimento è stata un’anomalia politica rispetto alla storia del potere. L’anomalia stava nell’ambizione di capolgere l’ordine sociale esistente e rendere la centralità del lavoro il perno su cui far girare il paese. Il perno si è spanato per molte ragioni che sono da approfondire una per una, rimanendo dentro all’esperimento. Da fuori non si viene a capo del suo fallimento. L’interesse a cercare i perché riguarda la Russia di ieri e la Cina di oggi. E tutti coloro che parafrasando Marx non accettano «lo stato di cose presenti».
Nel Dizionario manca la voce «immagine dell’Urss» che in passato ha ispirato tanta letteratura, da Andrè Gide a Sidney e Beatrice Webb. Per lo specifico italiano ecco tre casi. Il primo riguarda una collega scomparsa, una bravissima antropologa, allieva di Ernesto De Martino, Annabella R. Mi raccontò che suo padre, chimico in una industria farmaceutica, convinto di dover far la sua parte nella guerra tra capitalismo e comunismo, regalava all’Urss brevetti e informazioni scientifiche, tramite l’ambasciata di Roma. Morto prematuramente il padre, Annabella fu chiamata da Amerigo Terenzi, amministratore dell’Unità, il quale la informò che i sovietici l’avrebbero mantenuta sino alla laurea. E ogni mese lei si recava ad un certo binario della stazione Termini dove Terenzi le consegnava il denaro.
La piccola Cremlino
Il secondo caso riguarda Cerignola, il paese agricolo dove era nato Giuseppe Di Vittorio. All’epoca Cerignola era una roccaforte del partito comunista (oggi è nelle mani della famiglia Tatarella). Quando Chruscev andò a fare il suo giro in America nel 1959, nella piazza del duomo di Cerignola, ribattezzata del «piccolo Cremlino», montarono uno schermo gigante dove proiettavano i servizi della televisione sul viaggio. Braccianti e contadini vi assistevano, rapiti dallo spettacolo di uno di loro, trattato con rispetto e timore dai signori americani. E non v’erano nell’aria dubbi sull’Urss.
Il terzo caso ha a che fare con chi di dubbi ne aveva tanti. Si tratta dei corrispondenti dell’Unità a Mosca. Il più noto è stato Giuseppe Boffa. Il quale in privato era alla pari di Andreotti quanto a cinismo e pragmatismo, solo che il suo riferimento non erano gli alleati americani ma i compagni sovietici e l’Urss di cui dava l’immagine la più provocatoriamente lontana da quella ufficiale. In pubblico Boffa si adeguava allo stato dei rapporti tra i due partiti. Dopo Boffa chi andava a Mosca per l’Unità, solitamente partiva contento e incuriosito dall’opportunità, e tornava rabbioso, disilluso, voglioso di sfogarsi sulla distanza tra immagine e realtà. E appena poteva lo faceva.