Leggi made in Italy, ma che fallimento

Se nel tunnel nel quale si trova Rahmatullah si dovesse vedere un filo di luce, il merito potrebbe anche essere un po’ italiano. Regole e garanzie formali sono solo in parte tradizione legale dell’Afghanistan, un paese in cui la riforma della giustizia, basata largamente sul codice egiziano, risale agli anni Sessanta e Settanta e, dopo la caduta dei talebani, alla nuova costituzione tanto garantista che la parlamentare Fawzia Koofi la definisce «la costituzione più avanzata dell’Asia». Esagerando un po’. L’iniezione di garantismo si deve anche al Programma giustizia, messo in piedi da Roma nella passata legislatura per sostenere la giovane democrazia afgana. Programma ambizioso e rapidamente entrato nel mirino dei critici in Italia per almeno due buoni motivi: i costi (50 milioni di euro) a fronte di risultati piuttosto scarsi, e un tournover di esperti molti dei quali – vedi il caso eclatante del magistrato De Gennaro – hanno abbandonato sbattendo la porta.
Fiore all’occhiello del governo di centrodestra, il programma più costoso della cooperazione italiana non gode di buona fama nemmeno in Afghanistan: «Un fallimento – dice il senatore afgano Mohamad Awranq – di cui l’Italia si dovrebbe vergognare: cinque anni di lavoro e non abbiamo nemmeno il codice penale». Awranq è rabbioso, come molti afgani, per i risultati di una ricostruzione che non si vede. Per la verità va giù duro con tutto e tutti, a cominciare dai programmi contro la droga. Anche la portavoce del senato Fawzia Koofi non risparmia critiche, pur se ricorda che qualcosa è stato fatto. «Come il centro per i minori» alla periferia di Kabul, dice. I critici hanno al loro arco anche l’annoso dossier Img, l’organismo internazionale cui sono stati attribuiti 5 milioni di euro per lavori di costruzione dei tribunali. Ma Img non è riuscita nemmeno a registrarsi in Afghanistan e i soldi sono rimasti sul suo conto.
Tutto da rifare? All’ambasciata italiana una combattiva diplomatica difende il programma. Sara Rezoagli, un passato in diverse ong e nelle Nazioni unite, ritiene che il programma giustizia – e scusate il bisticcio – non venga giudicato con giustizia. Enumera le cose fatte e quelle che si stanno facendo. «Non tutto si vede e non tutto è quantificabile in metri cubi, benché comunque i tribunali costuiti ci siano eccome. Ma la formazione, gli studi e le ricerche non si vedono e gli sforzi per conciliare tradizione e nuove regole sono immani». Va bene, ma 50 milioni di euro? Rezoagli difende il programma, e senza buttare fango – come sarebbe semplice – su chi è stato al suo posto prima di lei, e preferisce guardare al bicchiere mezzo pieno.
Il programma lavora con la polizia afghana per la formazione sui diritti umani e quelli degli arrestati. Con i procuratori attraverso corsi di formazione e fornitura di attrezzature. Con la magistratura giudicante (in Afghanistan le carriere sono separate) per la costruzione di vere e proprie cittadelle decentrate e perché si aumentino gli stipendi, attualmente a 50 dollari al mese. Ma anche per dare prestigio e qualificazione a giudici che finora entravano in carriera magari solo col diploma della madrasa, la scuola coranica. Poi gli investimenti nell’università e nei servizi di assitenza legale. Dice con soddisfazione che è appena stato firmato un accordo col governo per la riapertura di 120 casi di minori «ospitati» in centri di detenzione chiusi. «Sarò onesta – aggiunge – ci vuole tempo e certo questa generazione non avrà la giustizia che merita. Ma stiamo mettendo le basi perché la prossima possa ottenerla”.

* Lettera 22