Legali dell’esercito Usa: a Guantanamo processi truccati

Ignorato ogni standard internazionale. L’accusa di due “prosecutor” della base

Iprocessi dei tribunali militari di Guantanamo sono «truccati», fraudolenti, fondati su prove scarse. Gli imputati – i presunti combattenti taliban catturati in Afghanistan alla fine del 2002 – possono godere solo di «una giustizia di seconda classe».
Questa volta l’accusa non viene da un’organizzazione per i diritti umani, ma direttamente dall’esercito statunitense. Martedì scorso i media americani hanno pubblicato le e-mail di due procuratori militari, impegnati proprio nei procedimenti giudiziari nella base navale Usa a Cuba, che si lamentavano con i rispettivi superiori per l’assoluta mancanza di legalità all’interno dei processi. E ieri nella polemica è intervenuto anche Michael Mori, difensore militare del detenuto australiano David Hicks, che ha definito «significative» le accuse, e ha chiesto l’interessamento del governo di Canberra.

Il Pentagono si è affrettato a respingere gli attacchi dei propri sottoposti, definendoli «datati». L’esercito – ha fatto sapere un portavoce – ha creato una commissione d’inchiesta interna proprio con lo scopo di rilevare eventuali irregolarità nei processi, ma il risultato è stato negativo.

Sulla stessa linea si è schierato anche il premier australiano John Howard, fedele alleato della Casa Bianca nella «guerra globale al terrorismo», con truppe schierate in Iraq e in Afghanistan, che si è detto rassicurato dalle dichiarazioni del Pentagono.

Ma le denunce dei due procuratori militari – rilanciate dai media statunitensi nei giorni scorsi – hanno lasciato il segno. «Quando mi sono offerto volontario per assistere a questo processo e sono stato assegnato a questo ufficio – scriveva a marzo del 2004 un magistrato dell’accusa, il capitano John Carr – mi aspettavo che ci fosse almeno uno sforzo minimo per predisporre un processo equo e preparare coerentemente i casi sulla base di accuse significative». Invece – continua il militare – mi sono trovato «in un processo che appare truccato». Penso che questi casi rappresentino «una seria minaccia alla reputazione del sistema giudiziario dell’esercito e anche una frode nei confronti del popolo americano», gli faceva eco il maggiore Robert Preston, rivolgendosi al suo supervisore.

«Queste lamentele – ha risposto sprezzante il procuratore generale Usa Philip Ruddock – risalgono a prima che fosse predisposta la commissione militare, e quindi devono essere considerate datate, piuttosto che attuali». Omettendo, però, che sia Carr sia Preston, i due militari che hanno denunciato il Pentagono dall’interno, sono stati, nel frattempo, rimossi dal proprio incarico.

Elementi, questi, che confermano quanto riportato nel corso del tempo da diverse organizzazioni indipendenti, secondo cui i processi davanti ai tribunali militari di Guantanamo si risolvono in poco più di una farsa. «Questi organismi – scriveva Amnesty International (Ai) nel gennaio di quest’anno – mancano completamente di indipendenza dall’esecutivo. Costruiti per ottenere condanne sulla base dei più bassi standard di prova, possono ammettere testimonianze segrete o forzate. I loro verdetti non prevedono appello. Solo chi non è cittadino Usa può esservi processato, in violazione dei diritti del giusto processo». Di fronte ai tribunali di Guantanamo, insomma, gli imputati hanno diritto solo all’assistenza legale di un militare nominato d’ufficio. I giudici si servono di traduzioni approssimative e la difesa non ha diritto a chiedere testimoni. Nessuno standard internazionale – afferma Ai – viene rispettato.

Alla “giustizia” del Pentagono sono sottratti i cittadini statunitensi, che possono contare su quella ordinaria, con tutte le garanzie che ne derivano. Come nel caso di John Walker, taliban americano catturato in Afghanistan all’indomani degli attacchi dell’11 settembre e processato davanti ai tribunali civili. Un trattamento di favore è stato concesso anche a cittadini britannici e francesi, detenuti nel campo di prigionia, a cui è stata concessa l’estradizione.

Chi non gode di questo “privilegio” rischia di essere tenuto segregato a tempo indetereminato. Per il Pentagono, infatti, gli uomini tenuti nelle gabbie della base cubana sono semplicemente terroristi, a cui non può essere riconosciuto lo status di «combattenti di un paese straniero» e a cui non si possono applicare le norme previste dalla convenzione di Ginevra. Ogni appello internazionale per chiudere il vergognoso campo di prigionia sono sempre cadute nel vuoto.

In queste condizioni si trova anche l’australiano David Hicks, che insieme a centinaia di detenuti di altre nazionalità vive da quattro anni in quello che Ai ha definito «un gulag dei nostri tempi». Per almeno 16 mesi l’uomo è stato tenuto in completo isolamento e sottoposto torture di vario tipo, dalla privazione del cibo a quella del sonno. Il governo di Canberra, però, non intende chiederne l’estradizione – perché l’uomo «non ha commesso violazioni contro la legge penale australiana» – meritandosi l’accusa di «svendere» i diritti dei propri cittadini i nome delle ragioni della politica internazionale. «Il primo ministro australiano e i leader dell’opposizione – affermano i verdi australiani – stanno svendendo il nostro sistema legale, il nostro sistema democratico, il nostro diritto di ascoltare i nostri cittadini davanti ai nostri tribunali».

L’avvocato di David Hicks, il militare Mori, va anche oltre: «Questo è un sistema in cui una parte scrive le regole, scieglie i membri, prende tutte le decisioni e poi le controlla. Quando si tratta di sport, gli australiani non permetterebbero alla squadra avversaria di scrivere le regole, scegliere l’arbitro e i giocatori della tua squadra. Come può tutto questo essere tollerato quando si tratta invece della libertà di una persona?».