Legacoop, la parola al Partito democratico

Il secondo giorno del congresso di Legacoop – passata la relazione e i saluti (tanti e tutti importanti) – è il giorno delle «cose serie». Il presidente Giuliano Poletti aveva messo al centro la necessità di «una nuova idea» strategica, in grado di tracciare la direzione di marcia della cooperazione. Due ministri e un segretario di partito – tutti diessini; o «ex comunisti», come direbbe Berlusconi – salgono sul palco per suggerirne una. Declinata in vario modo, ma comunque coincidente.
Luigi Bersani, ministro dello sviluppo, emiliano ed ex presidente della sua regione, si prende l’applauso destinato al vecchio amico e illustra a grandi tratti il tipo di imprenditoria che potrebbe risollevare stabilmente i tassi di crescita – in senso lato – di questo paese. «Costi delle ricariche e “massimo scoperto bancario”, all’estero non sanno neanche cosa sono; eppure imprese di altri paesi che operano qui da noi si guardano bene dall’introdurre quel minimo di buone abitudini di mercato vigenti a casa loro»; un paese senza indebite posizioni di rendita, insomma. Ma anche un paese in cui «sia possibile spostare risorse umane da dove non servono più a dove invece sono necessarie» (e cita il Pra da ricollocare per i collaudi, oppure gli avvocati «parafangari» da spingere a occuparsi di autocertificazione per le imprese). E ottiene l’ovazione quando prende le difese della «diversità biologica» dell’impresa cooperativa, da difendere rispetto al «pensiero unico» personificato nella Commissione Ue, perché «una mela è buona se lo è, non lo diventa solo quando somiglia a una pera». E quindi siano mantenuti «i tratti distintivi» della cooperazione, ma «utilizzando tutti gli strumenti che possano far esprimere liberamente tutte le potenzialità».
Traspare l’ossessione per la «crescita dimensionale dell’impresa e degli aggregati di imprese», chiave di volta della «competizione globale». E anche il tallone d’Achille della cooperazione, in genere dimensionata sul medio-piccolo. Tocca perciò a Fassino fare un lungo giro discorsivo che parte dalle vicende – e dalla «necessità» – del «partito democratico, che non riguarda soltanto i partiti e il sistema politico», ma che deve accompagnare «un processo sociale»; il quale, va da sé, «richiede la partecipazione del movimento cooperativo». L’orizzonte fassiniano è chiarissimo: «il sistema della rappresentanza sociale – Cgil, Cisl e Uil, per dirne una – è figlio della rottura del fronte antifascista, nel ’48»; le ideologie alla base di quella rottura «non hanno più motivo di essere» e quindi diventa possibile una «semplificazione della rappresentanza sociale» speculare a quella che va perseguita nella politica (troppi i partiti rappresentati in parlamento). Naturalmente «non c’è nessuna nostalgia per il collateralismo», perché i principi base oggi sono «autonomia dei soggetti e convergenza sugli obiettivi». Ma, insomma, le «unificazioni» a livello politico hanno senso se la rappresentanza sociale si muove in direzione simile, se non identica.
E’ la proposta di unire, in prospettiva, i grandi sistemi della cooperazione (Legacoop e Confcooperative, una volta si sarebbe detto Pci e Dc), che ha già incontrato però una prima risposta non troppo soddisfacente da parte di Luigi Marino, presidente dei «cugini» di area cattolica.
L’altro ministro, Cesare Damiano (titolare del Lavoro), si muove nel collaudato solco della mediazione tra interessi delle imprese e diritti del lavoro. Il paradigma di questa «concertazione» strategica è per lui la lotta al «lavoro nero», che sul lato del lavoratore significa maggior rischio di infortuni e su quello dell’impresa implica una «concorrenza sleale». Un ruolo che lo porta a dire – qui, davanti a imprenditori sociali, ma pur sempre imprenditori – «non ho assolutamente nulla contro il lavoro a progetto» e «non cancellerò la legge Biagi». Ma: purché «un progetto ci sia» e che «gli strumenti consentiti dalla legge siano usati in modo corretto». Le soluzioni proposte sono quelle già note: «il lavoro precario deve costare una lira in più di quello regolare» e «occorrono ammortizzatori sociali adeguati alla discontinuità lavorativa». Perché «la flessibilità ormai connaturata» alle leggi di un mercato che ha rovesciato i suoi rapporti con la produzione (determinandola) è un dato ineliminabile.