Un paese in guerra produce due effetti tra loro speculari: da una parte la rimozione, la censura e persino la menzogna rispetto ai motivi reali della guerra; dall’altra la militarizzazione interna allo stesso paese in guerra: il fronte esterno e il fronte interno, entrambi da presidiare.
Accade così, anche oggi, in Italia. Dopo sei anni dall’ attacco americano quasi nessuno ne ricorda più il motivo scatenante proclamato: la cattura di Bin Laden. Ma poiché non si può invadere un paese e bombardarlo per sei lunghi anni, ridurre un popolo alla fame e ammazzare oltre 100.000 persone solo per catturare un uomo, la cultura dominante ha dovuto diffondere, rimuovendo il primo, un nuovo messaggio, più realistico: non bombardiamo per catturare Bin Laden ma contro i talebani. Sono dunque i talebani il motivo della guerra?
La verità è che il controllo militare dell’Afghanistan, per il Pentagono, è parte preponderante e teorizzata del progetto generale di guerra infinita e permanente, dell’estensione della Nato nel cuore dell’Asia, ai confini dell’Iran, del Pakistan e soprattutto della Cina, ormai primo e strategico avversario degli Usa. Sono già otto le basi Nato costruite o in costruzione in Afghanistan e dovrebbero diventare venti. Per organizzare tanta capacità di fuoco e controllo egemonico, in quell’area strategica, si può ben mettere in conto ogni genere di distruzione.
Ma oltre che costruire una falsa coscienza di massa un paese in guerra ha bisogno di aprire anche e controllare anche un fronte interno, militarizzando la società, l’informazione, la politica, i partiti. E cos’altro è, se non una forma della militarizzazione, questo coro filo-imperialista, questa inquietante voce univoca della quasi totalità dell’apparato mediatico italiano volto a sorreggere e ad ampliare l’intervento bellico in Afghanistan? E anche: che cos’è, se non un vero e proprio trasferimento interno del fronte militare la minaccia e la pratica dell’espulsione di alcuni comunisti «dissidenti» dai loro partiti? Non se ne pentirà questa sinistra quando la guerra si estenderà in tutto l’Afghanistan, coinvolgendo direttamente anche i nostri soldati?
Chi scrive è stato uno dei primi «otto dissidenti». Dallo scorso maggio ci siamo battuti per la conquista di una uscita strategica dall’Afghanistan. Ora, su chi scrive, come su altri, è sospesa ogni giorno l’ascia dell’espulsione oltre che l’argomento del ritorno delle destre qualora Prodi dovesse nuovamente trovarsi in minoranza sulla politica internazionale. Un argomento vero, poiché è certo che siamo di fronte a una delle destre più reazionarie e guerrafondaie d’Europa. Ma un argomento che diviene strumentale nel momento in cui la sinistra d’alternativa non lotta più adeguatamente, sul piano istituzionale e soprattutto sociale, per la conquista dell’uscita strategica da Kabul e contro il raddoppio della base Usa a Vicenza. Sta qui l’ambiguità: nel scegliere solo il dettato politico di Rutelli e D’Alema e nel non voler capire che la vittoria strategica della destra si va già organizzando sulle politiche deludenti dell’Unione. Deludenti per quei milioni di persone di sinistra che da questo governo si attendevano una svolta.
Sono sempre più contrario alla guerra in Afghanistan e nel contempo vorrei poter non smettere di battermi dentro il mio partito, il Prc, dove è ancora possibile rafforzare ed estendere una posizione autonoma dalla sinistra moderata e chiaramente antimperialista, comunista, pacifista. Ma il mio partito deve scegliere, in tempi politici, da che parte stare. Dalla parte del movimento per la pace e degli interessi del movimento operaio complessivo, o sul versante della difesa aprioristica e a tutti i costi di una politica e di un governo che, ove prescindesse dalla conquista di obiettivi tangibili, rischierebbe di mutarsi in governismo fine a se stesso? Non si dimentichi che già alla fine degli anni ’80, durante il primo attacco contro l’Iraq, sulla questione della adesione all’aggressione imperialista finì la storia del Partito comunista italiano e vide il suo nuovo inizio la vicenda di un nuovo atlantismo neo-liberale e moderato targato Pds.
* senatore del Prc