L’economia del Gattopardo

Crisi e contraddizioni vengono da lontano ben primadi Berlusconie dei suoi guasti

Le preoccupazioni di Riccardo Realfonzo (il manifesto del 24 settembre) sul programma economico di un possibile e auspicabile governo di centrosinistra, riprese sul versante delle politiche sociali da Roberto Pizzuti (il manifesto del 27 settembre), sono ben fondate. L’implosione della maggioranza, la crisi della Banca d’Italia, la stagnazione industriale, tutte alimentano la semplificazione che basti liberarci di Berlusconi e tornare al sano rigore economico, per uscire dalla crisi. La grande stampa e i poteri forti dell’economia, le antiche grandi famiglie che possono, come alla Fiat, autoscalarsi senza scandalo, tutto gioca a favore di una resa dei conti con la destra che riproponga tutte le politiche economiche del passato. C’è un’oggettiva accelerazione che spinge: più aumenta la frana del centrodestra, più la sua barca affonda, più tutti i poteri grandi e piccoli si aggrappano all’altra parte. Siamo sempre il paese del Gattopardo, nel quale il giovane barone dice al vecchio zio, che vuole ancora difendere i Borboni: «bisogna che cambi tutto perché non cambi niente». L’economia è sicuramente il nodo nel quale si può concentrare il massimo del gattopardismo della politica italiana. E questo proprio perché attorno a questo nodo si dipanano crisi e contraddizioni che vengono da lontano, da ben prima del governo Berlusconi e dei suoi guasti.

Leggiamo il documento «riformista e moderato» della Confindustria di Montezemolo sulle relazioni sindacali. Si chiede, ancora una volta, di ridurre il peso del salario contrattato a favore di quello concesso unilateralmente dalle aziende. Si chiede di lavorare di più, si rivendicano maggiore flessibilità sia degli orari che dei rapporti di lavoro, si vogliono imporre regole per limitare ancora il diritto di sciopero e la democrazia sindacale. L’innovazione, la qualità dello sviluppo, il ruolo della ricerca, sono diventate tutte chiacchiere. La sostanza è che gli industriali rivendicano una nuova fase di lacrime e sangue, nella quale ancora una volta spesa pubblica e salari finanzino la competitività delle imprese. Sarò stato distratto, ma qualcuno ha notato una levata di scudi del centrosinistra rispetto a queste posizioni degli industriali? Eppure su questo scioperano tutti i metalmeccanici.

Chi e cosa vince?

La spesa sociale pubblica si sta brutalmente riducendo. In intere regioni italiane la sanità pubblica è oramai un miraggio, lo stesso avviene per la scuola e per i servizi essenziali. La finanziaria che taglierà ancora i bilanci degli Enti locali, compirà altri drammatici danni. Come si costruisce un’alternativa a questa catastrofe sociale, se non si pone mano alle tasse, se non si recuperano i soldi là dove ci sono, nell’evasione e nelle ricchezze? Certo, anche nel centrosinistra tanti parlano di lotta alla rendita, ma non vorrei che si pensasse che tutti i guasti d’Italia vengono dalle figure ridicole e perdenti dei furbetti del quartierino.

Pochi giorni fa sono state sbloccate tonnellate di prodotti tessili cinesi che sostavano alle frontiere europee. Si è scoperto che gran parte dell’industria tessile italiana si apprestava a metterci sopra i propri marchi. Mettere le targhette di nomi famosi del made in Italy, e guadagnare le conseguenti royalties, su vestiti fatti in Cina, è rendita o profitto? La sostanza è che, se si vuole costruire uno sviluppo diverso da quello di questi anni, bisogna partire da una gigantesca redistribuzione della ricchezza, dall’alto verso il basso, da profitti e rendite verso lavoro, pensioni, servizi e redditi sociali, dal privato verso il pubblico. L’Europa di Maastricht e del Patto di stabilità indicano invece la direzione esattamente opposta. Forse è per questo che quasi tutti i governi perdono regolarmente le elezioni. Da ultimo il centrosinistra polacco, che è precipitato a poco più del 10% dell’elettorato. Anche Berlusconi perderà, ma chi e cosa vince? Quale politica economica e sociale alternativa, in grado di consolidare un effettivo cambiamento? Se non si compie una profonda revisione critica delle politiche economiche degli anni Ottanta e Novanta, se non si esce dal rigorismo monetarista, che, al di là delle chiacchiere, fa sempre pagare i conti ai più deboli, se non si mettono altri cardini, altri parametri – il lavoro, il pubblico, la qualità dei servizi – a correzione di quelli che impiccano le politiche economiche agli umori della globalizzazione, le cose non andranno bene.

Mettiamoli alla prova

Bisogna allora incalzare il centrosinistra perché almeno sulle questioni più facili mostri un po’ di coraggio: dica che i metalmeccanici hanno ragione e Montezemolo torto. Bisogna insistere affinché il programma dell’alternativa di governo sia il più avanzato possibile, ma poi bisogna anche cominciare ad attrezzarsi. Il cambio di governo deve diventare l’occasione affinché i movimenti, la società civile, i lavoratori e l’opinione pubblica si mobilitino per chiedere molto di più che nel passato. Questa può essere la strada per superare l’iperprudenza programmatica del centrosinistra. Consideriamo il cambio di governo un’occasione per rompere il quadro delle antiche compatibilità e per rivendicare maggior reddito, maggiori diritti, maggiori garanzie sociali. Mettiamoli alla prova con i movimenti e il conflitto sociale. Questa mi pare la strada più realistica per ottenere mutamenti reali.