Le veline del Pentagono

Un articolo è intitolato «Le sabbie soffiano verso un Iraq democratico», un altro: «Gli iracheni sono decisi a sopravvivere nonostante il terrorismo», in un altro ancora (dove sono citate esortazioni di Maometto all’unità e alla non violenza) si legge: «la stampa occidentale e i cosiddetti osservatori “oggettivi” dell’Iraq sono spesso critici su come noi, il popolo iracheno, procede per determinare ciò che è meglio per la nostra nazione». Accomuna questi articoli un arioso ottimismo che di questi tempi, negli States, non osano nemmeno gli organi mediatici più vicini alla politica estera dell’amministrazione Bush, e poi il fatto che tutti i pezzi sono stati scritti da militari americani che poi hanno pagato per farli pubblicare su vari giornali iracheni. Apparsa mercoledì in un’inchiesta del Los Angeles Times (poche ore dopo che il ministro della difesa Donald Rumsfeld aveva citato la promozione della libera informazione e degli standard del giornalismo occidentale come uno dei successi delle democratizzazione a Baghdad), entro la sera stessa la storia è arrivata su tutti i talk show televisivi (anche quelli satirici, con effetti esilaranti) e ieri sugli altri grandi quotidiani Usa.

Orchestrata attraverso a un contratto di parecchi milioni di dollari firmato con l’agenzia di public relations di Washington Lincoln Group (che traduce anche gli articoli in arabo, si occupa della loro diffusione e di celarne l’origine), questa recente iniziativa del Pentagono prevede sia la redazione e la pubblicazione di pezzi favorevoli alle forze d’occupazione sotto le spoglie di reportage o editoriali indipendenti, sia anche pagamenti regolari a circa una dozzina di giornalisti iracheni il cui lavoro è considerato favorevole agli Usa. Definiti tecnicamente (e non a caso) «story boards» gli articoli in questione -descritti su Los Angeles Times, New York Times e Washington Post – trattano con toni positivi di soggetti come l’economia, la sicurezza, le attività degli «insorti» e il futuro politico dell’Iraq. In alcuni casi sono presentati come pezzi d’opinione, in altri come vere e proprie news, servizi di notizie. Contengono spesso citazioni anonime di vari rappresentanti dell’esercito Usa e descrizioni ad hoc di operazioni militari contro i terroristi («la verità assoluta non è un elemento essenziale di queste storie» ha candidamente spiegato al Los Angeles Times un ufficiale americano che ha preferito restare anonimo). Solo in rari casi è chiaro che si tratta di «pubblicità» e non di iniziative editoriali, e non è mai indicata la loro matrice americana.

Alcuni dei giornali iracheni – per esempio Al Mutamar, un quotidiano di Baghdad vicino al vicepremier Ahmad Chalabi – le pubblicano così come arrivano, in modo indistinguibile dalle altre parti giornale e spesso firmate dallo stesso direttore, Luay Baldawi, che le riceve via Internet. «La politica del nostro giornale è pubblicare di tutto, specie se è favorevole alle cause in cui crediamo. E noi siamo pro America», ha detto Baldawi al Los Angeles Times, aggiungendo però che d’ora in avanti fara più attenzione alle sue fonti. Per pubblicare una storia intitolata «Più soldi destinati allo sviluppo dell’Iraq», il 2 agosto scorso, il quotidiano Addustour è stato pagato circa 1.500 dollari. Il suo direttore, Bassem Sheikh, ha dichiarato di non avere idea della provenienza dell’articolo ma di averlo identificato come «media services», quasi si trattasse di una qualche agenzia.

Sempre sul LATimes, gli impiegati di un altro giornale, Al Mada, descrivono l’arrivo in redazione il 30 luglio scorso di un uomo munito di un fascio di banconote destinate alla messa in pagina di un pezzo che diceva: «I terroristi attaccano volontari sunniti». Lo sconosciuto (identificato più tardi come un addetto del Lincoln Group) non ha lasciato biglietto da visita e non ha chiesto ricevuta per i 900 dollari che ha pagato. Il caporedattore di Al Mada , Abdul Zahara Zaki, si è detto molto rattristato dall’incidente, ma ha anche affermato che se avesse saputo che si trattava di propaganda americana avrebbe chiesto una mazzetta ben più alta.

Per ora, la sede centrale del Pentagono, a Washignton, prende le distanze da questa «sottile» operazione di guerra psicologica. Il capo dello stato maggiore Usa, generale Peter Pace, avrebbe infatti appreso della cosa solo mercoledì, dai giornali. Ma Bush – che, come un imbonitore da circo, ha iniziato proprio mercoledì un tour promozionale per rilanciare la causa della guerra, articolato in una serie di discorsi presso basi militari e platee rigorosamente amichevoli – disdegna la libera informazione quanto predilige proprio queste tecniche. Il suo governo distribuisce regolarmente ai media statunitensi infomercials televisivi sotto forma di autentici segmenti di news, assolda finti giornalisti perché facciano domande amichevoli ai briefing della Casa Bianca e usa quelli veri (il caso Judith Miller) come veline del Pentagono. Insomma la realtà continuano a «farla» loro.