Le uova marce del drago

Molti si sono messi in fila per rendere il dovuto omaggio all’esordio narrativo del nazifascista confesso Pietrangelo Buttafuoco, il cui primo libro uscì, quattro anni fa, per le padovane edizioni di Ar. Adesso Le uova del drago – questo il titolo del romanzo – è stato stampato da Mondadori e il fascista (confesso) ha scalato le classifiche di vendita nel giubilo generale. Secondo Giampiero Mughini – che gli è amico e addirittura vanta il primato della scoperta – tutto ciò è molto bello e molto buono. Anche per Francesco Merlo l’evento è considerevole. Specie in questi giorni che, in vetta alla top ten, la battaglia è col «veltroniano» Baricco. Ma non ci sono soltanto i catanesi della diaspora a far festa sulla via della riconciliazione nazionale. L’orgoglio è collettivo e supera lo spirito di campanile, l’appartenenza etnica. Dal Giornale al Foglio, dal Secolo d’Italia all’Unità (la penna, qui, è del valoroso latinista Luca Canali, peraltro collaboratore al tempo stesso del principale house organ dell’uomo più potente d’Italia), è un tripudio di esclamazioni e di consensi. Il «sangue dei vinti» si scioglie con la medesima regolarità (e benché ormai con maggiore frequenza) di quello di san Gennaro. Perché la narrazione – ambientata in Sicilia tra il 1943 e il 1945 – si fonda sul ribaltamento: i soldati anglo-americani sbarcati nell’isola (gli alleati, nel romanzo, vengono sempre menzionati tra virgolette) sono gli invasori e i carnefici, mentre le forze del Reich rappresentano l’eroismo, la civiltà, l’onore, l’umanità, la resistenza. Già, la resistenza.

Sono i nazisti, per Buttafuoco, i veri partigiani, guardati con simpatia e affiancati e sostenuti dalla gente in azioni di sabotaggio.

Che i siciliani – fatta eccezione per collaborazionisti e spie – si siano resi protagonisti di tanta coraggiosa effervescenza al fianco dei tedeschi, com’è ovvio, è idea che farebbe ridere di gusto uomini restii all’allegria come Vitaliano Brancati e Tomasi di Lampedusa, e non a caso buona parte delle fonti (se così si possono chiamare) a cui Buttafuoco si appella, a parte il racconto orale di qualche vecchio nostalgico dell’orbace, sono di matrice fascista. Si va da Piero Caporilli (L’ombra di Giuda. Eroi e traditori nella tragedia italiana, Edizioni Ardita, 1962) a Enrico Galoppini (Il fascismo e l’Islam, Quaderni del Veltro, 2001), da Daniele Lembo (La resistenza fascista. Fascisti e agenti speciali dietro le linee, Ma-Ro editrice, 2004) a Manfredi Martelli (Il fascio e la mezzaluna. I nazionalisti arabi e la politica di Mussolini, Edizioni Settimo Sigillo, 2003). Né potevano mancare Navi e poltrone e Settembre nero di Antonio Trizzino, autore cult per vecchi e nuovi fascisti a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta.

Per Le uova del drago sono stati pronunciati – senza arrossire di vergogna – i nomi di Céline e di Drieu la Rochelle. Ma Buttafuoco – se pensa come Alessandro Pavolini – scrive talvolta come Mario Appelius, tal’altra come il razzista Telesio Interlandi o, infine, come Gianna Preda. È questa – letto il libro che ha l’aria poco rifinita di un dattiloscritto giovanile rifiutato qualche anno fa dagli editori e tenuto in caldo per l’epoca più propizia – la sua genealogia culturale e, oggi, il suo vanto e il suo privilegio. Non somiglia, se vogliamo, neppure al peggior Malaparte.

Il tanfo – di mezzacalza con gli stivali – è quello antico del fascismo catanese, dal diplomatico repubblichino Filippo Anfuso all’eterno studente fuoricorso Benito Paolone, da Biagio Pecorino a Vito Cusimano, da Girolamo Rallo a Giuseppe Calabrò, da Orazio Santagati a Gaetano La Terza. Un incubo di sentimentalismo populista, di nostalgia, di risentimento, di frustrazione travestita da patriottismo. Ciò che sembrava sepolto per sempre, risorge grazie a una trasversalità lasciata passare, e dai più accettata, come un superamento degli steccati ideologici e anzi come una ricompensa.

Si restituisce decuplicato ai figli – tuttavia pur sempre in camicia nera – il credito che ai padri fu tolto per forza di giustizia. Ma che razza di paese è mai diventato il nostro che, nel mentre lancia schizzi di fango addosso a Giaime Pintor o fa le pulci al passato remoto di Norberto Bobbio, per contro glorifica e spedisce in top ten il romanzo d’appendice di un quarantenne il cui unico merito è quello di orgogliosamente dichiararsi fascista?

Si ironizza sui «redenti» passati all’antifascismo negli anni della cospirazione e della Resistenza e si battezzano con l’acqua santa dell’oblio i portatori di acqua sporca al mulino della storia. A stabilirlo, è chiaro, non è Giacomo Debenedetti, ma Giuliano Ferrara.