Li ho potuti osservare, questi “neri”. E vale la pena di raccontarli, per come sono, senza fronzoli. Ciascuno tragga le conclusioni che vuole, materiale brado, impressioni crude. Ma sono convinto che avremo a che fare con loro, a lungo. E bisogna saperlo, per non farsi illusioni, e per non fare troppi errori in futuro. Perché l’impressionante movimento che si è registrato a Genova, è qualcosa di inedito, che non ha confronti con esperienze precedenti che ho sentito citare in questi giorni: il 1960, il 1968, il 1977. E’ grande, ma anche composito, indifeso, ingenuo. Anche questo bisogna saperlo.
Atto primo Venerdì 20 luglio, ore 11, Piazza Paolo da Novi. Non è ancora successo niente. Attraverso lo sbarramento di camionette della polizia che chiude interamente corso Buenos Aires. La piccola piazza è piena di giovani che si riposano seduti a terra, nelle aiuole. Ma al centro e sul lato est ci sono gruppi di giovani, in prevalenza – non tutti e non del tutto – vestiti di nero, passamontagna, caschi, maschere. Parlano poco, ma sono impegnati a scavare nel selciato, a strappare delimitazioni metalliche del prato, a svellere segnali stradali. Uno strano silenzio, tra loro. Ma lavorano assieme, con impegno, in modo coordinato. A cosa si stiano preparando è del tutto chiaro. Tra poco ci sarà l’assalto. Il loro assalto. Mi siedo in mezzo a loro. Sono davvero molto giovani. Liceali, diresti, studenti, alcuni esili. Tra loro diverse ragazze. Quanti? Difficile dire, ma quelli che metodicamente si preparano in questa piazza non sono più di due o trecento. Un conglomerato composito: sento parole smozzicate in tedesco, spagnolo, francese, italiano. La maggioranza stranieri, ma è come si conoscessero, tanto sono coesi. Il resto della piazza pare non accorgersi di quanto sta accadendo, o non lo ritiene importante.
Immagino che altri occhi, oltre ai miei, stiano scrutando questi preparativi. Non sbaglio. Venti minuti dopo un distaccamento di polizia di un’ottantina di uomini esce dai ripari e parte all’attacco. Sarà l’inizio di sei ore di scontri.
Atto secondo Sabato 21 luglio, ore 16 circa, Piazza Rossetti, alla Foce. L’enorme corteo pacifico sta svoltanto da circa un’ora e mezza in via Rimassa, provenienza Corso Italia. La polizia è laggiù, in fondo a Piazza Rossetti, vicino all’ingresso della Fiera del Mare. Dai fianchi del corteo, indisturbati, trascinanti, bellicosi, si staccano a decine e decine, per andare a fronteggiare un imponente cordone multiplo della polizia. Cominciano gli scontri, gli incendi. Sotto i portici della strada, subito dopo via Rimassa, un altro gruppo di neri è impegnato a sfondare le vetrine di una banca. Sistematici colpiscono i vetri a prova di proiettile con colpi di maglio di tubi innocenti. I dimostranti li stanno a guardare, tra curiosi e intimiditi. Questi non sono soltanto giovanissimi: diciamo sopra i venti. I demolitori sono non più d’una decina, ma lavorano sodo. Si sentono tonfi possenti, mentre altre squadre sono impegnate contro la polizia, che non avanza. Abbattono tutto quello che trovano, tra loro quasi non parlano, ma sono inglesi. Finchè, tra gli altri, quelli che sono venuti a vedere, ragazzi e ragazze, cominciano a partire fischi. Poi proteste: “Basta, smettetela, sputtanate tutto!”. Arrivano due o tre giovani, si scagliano sui demolitori. Volano prima pugni, poi qualcuno cade a terra. Ma dura pochissimo. Arrivano i rinforzi per i demolitori. Sei, sette membri del loro gruppo, che stavano in mezzo alla gente, si fiondano contro i giovani del corteo e li fracassano di botte. Poche parole, a base di “fuck you” e il loro disordine e ristabilito. Quelli che hanno provato a fermarli battono in ritirata, due di loro sanguinanti per le sprangate. E ricominciano i colpi di maglio. Nessuno trova più il coraggio di ostacolarli. Hanno vinto. Dopo un’ora appiccheranno il fuoco alla filiale bancaria, incuranti del fatto che nell’appartamento soprastante c’è gente.
Atto terzo Sabato 21 luglio, ore 16,45. Corso Italia all’altezza del civico 18. Polizia e Guardia di Finanza sono risaliti fin oltre Punta Vagno, una carica dopo l’altra, alcune violentissime, che lasciano sul terreno una decina di feriti, alcuni gravi. Ma non sembrano esserci “neri” tra di loro. I giovani alzano le mani in segno di resa, e cercano di passare alle spalle della polizia. Il terrore nei loro occhi. Io faccio il percorso inverso, approfittando della tregua, evidentemente temporanea. Trecento metri più avanti ci sono i “neri”. Un centinaio, seduti nell’aiuola spartitraffico. Si riposano, si fasciano le ferite, bevono. Uno sta male, vomita e perde sangue. Altri fumano. Non sono giovani. Diciamo sopra i trenta, almeno parecchi. E non sono né esili, né fragili. Spranghe, mazze, tubi, sono a terra. La divisa nera si direbbe quasi d’ordinanza. Per distinguersi, evidentemente, tra di loro. E parlano italiano. Altri trecento metri più indietro c’è la testa del secondo troncone del corteo, quello che è rimasto tagliato fuori dall’avanzata della polizia che risale Corso Italia.
Vado a sincerarmi di quanta gente è rimasta isolata da questo disastro tattico della polizia. Ci sono laggiù ancora altre ventimila persone. Che hanno paura, non sanno dove andare. Ci sono milanesi, bergamaschi, baresi, napoletani, romani. Molte donne. Nessuno di loro era venuto a Genova per fare guerriglia urbana. Mi chiedono cosa fare, dove andare. Il mio consiglio è sciogliersi e arretrare il più velocemente possibile, disperdersi verso via Trento, togliersi dai piedi insomma. Tra poco, prevedo, ricominceranno gli scontri. Torno indietro verso i “neri”. Vedo che hanno una loro ambulanza. Per meglio dire: un furgone bianco, senza scritte, con una croce rossa sulla fiancata fatta di scotch.
Si stanno rialzando. Bisogna riprendere il lavoro. Colgo al volo uno spezzone di colloquio: “Sei scemo? Non siamo mica qui per giocare! Questo ferito lo dobbiamo curare noi, non vuoi mica darglielo….? Chiama il dottore!”. Chi parla sembra essere il capo: stempiato, quasi calvo, con i capelli lunghi sul collo. Quarant’anni. In tre eseguono e mettono il ferito dentro il furgone. Poi ricomincia la baraonda. Le cariche della polizia continueranno, contro i disgraziati del corteo, per altre due ore, in tutta Albaro.
Qualcuno ha notato che, in questi tre giorni genovesi, nessuno di questi gruppi ha mai provato ad attaccare la “zona rossa”. Hanno invariabilmente agito abbarbicati ai cortei pacifici, come escrescenze nere. Li ritroveranno sempre, tutti i cortei del futuro, e dovranno sapersene difendere, chiunque li mandi, e anche se non li manda nessuno.