Le tre vite di Nella

Nella ha raccontato la sua storia pienamente consapevole dei rischi che correva.

Nei nostri incontri estivi in Valle d’Aosta ci siamo detti più volte che la storia la fanno e la scrivono i vincitori mentre noi, almeno in questa parte del mondo siamo dei perdenti. E quel che è peggio la scrittura della storia propostaci dal revisionismo dilagante è quella immaginata da Jean Cocteau : la storia sono fatti che finiscono per diventare leggende, le leggende sono bugie che finiscono per diventare storia. Per fortuna questo è un libro diverso che, sotto forma di intervista, racconta, in uno spazio temporale molto ampio, la vita autentica di una comunista non pentita : dell’esilio fino alla Resistenza, poi quella di dirigente politico del PCI nel dopoguerra e infine quella spesa nel sindacato fino all’età della pensione negli anni ‘80. Punto. Chiusura che lascia un po’ perplessi.

Inspiegabilmente l’intervista si ferma quando comincia la “quarta vita” di Nella, quella dei suoi ultimi vent’anni, quando si è chiesta (ce l’ha ricordato in più occasioni) per quale ragione il partito al quale ha consacrato il suo impegno politico e ideale sia stato sciolto e portato in discarica. Ma trattandosi di una intervista è chiaro che i limiti e i contenuti di chi da le risposte dipendono molto da chi fa le domande. Legittimo il sospetto che l’intervistatrice, Maria Luisa Righi, esperta ricercatrice dell’Istituto Gramsci di Roma, abbia volutamente chiuso con le domande proprio per evitare che il racconto di Nella sconfinasse nella sua “quarta vita” entrando in collisione con la nuova identità postcomunista assunta dall’Istituto che, dopo la catarsi ideologica compiuta negli ultimi due decenni dai camaleonti che lo dirigono, di Gramsci ha conservato solo il nome.

Con questa non piccola omissione il libro, benché esalti con pieno merito le eccezionali virtù personali di una donna militante comunista, cui il movimento operaio deve molto, oscura alcuni elementi importanti relativi ai contenuti dello scontro interno al PCI conclusosi con la sconfitta della sinistra e l’esito fatale della Bolognina. Intendiamoci, lo sforzo compiuto da Nella non è stato inutile. Il racconto della sua splendida storia personale ha comunque il merito di mantenere come filo conduttore parecchi decenni di storia del PCI e perciò di cogliere l’origine di certi passaggi negativi.

Delle tra vite di Nella, come recita il titolo, la seconda è quella che ho vissuto e conosciuto da vicino. Ed è a cominciare da questa che sarebbe interessante compiere una riflessione di ampio respiro per trovare qualche risposta a domande che ci poniamo ormai da alcuni decenni. Ma stasera non c’è il tempo e mi limito a qualche rapido accenno.

Ci siamo chiesti spesso come, quando e perché sia cominciata la mutazione del più grande partito comunista dell’Occidente, mutazione che ha portato per tappe successive, al disastro attuale che vede tutti i reparti della sinistra italiana ridotti in uno stato pressochè comatoso. Nella parte centrale del libro di Nella troviamo la conferma che il cumulo di macerie che abbiamo davanti oggi non è stato provocato da un sisma improvviso quale è stato la caduta del Muro e la Bolognina, ma il risultato di un lunga serie di passaggi a destra, di natura strategica, distribuiti lungo una storia di decenni.
E’ stato proprio al termine di quella “seconda” vita di Nella, anni 50/60, e dopo un duro scontro politico interno al PCI, a Milano e in Lombardia, che la natura del partito ha cominciato la sua lenta ma irreversibile mutazione genetica.

I vincitori di quello scontro, i cosiddetti “rinnovatori”, miravano appunto al superamento della linea praticata dal partito nel dopoguerra, giudicata settaria, operaista e dogmatica, quindi incapace di inserirsi a pieno titolo nei processi di modernizzazione industriale verso cui si stava avviando il paese . Il che richiedeva, sostenevano i “rinnovatori”, che la priorità non fosse più la fabbrica, che fin dalla fondazione è stata il pilastro della forza del partito, ma bensì l’istituzione, il Parlamento (presenza peraltro mai sottovalutata da nessuno fin dai tempi di Lenin). Il consenso elettorale e il territorio diventano perciò l’elemento centrale della politica del partito, poi le lotte di massa e lo scontro col padronato. Un poi non privo di significato, come ci ricorda P:Secchia.

L’accusa di settarismo e dogmatismo mossa alla sinistra, definita con una certa spocchia intellettuale “operaista”, era quella di avere un approccio particolarmente distruttivo verso le nozione di riformismo, alienandosi in tal modo le necessarie alleanze, altro cardine non marginale della politica comunista.

Un accusa totalmente infondata. Non perché Longo, Secchia, Colombi fossero dei riformisti. Anzi sono stati proprio loro, coerenti rivoluzionari, a compiere escursioni critiche di largo respiro sul riformismo italiano, da quello prampoliniano, passando per Treves, Turati e Modigliani, fino a Saragat. Ma si sono sempre guardati dal mettere sullo stesso piano, con intenti distruttivi, tutti gli esponenti e i contenuti del riformismo italiano. Ne hanno segnalato con molto rigore i limiti ma con un occhio di riguardo al ruolo socialmente propulsivo svolto da Prampolini nel suo tempo e nella sua terra. Poi hanno usato la clava contro Saragat, con qualche motivata ragione.

Quello che i tanto disprezzati operaisti volevano dimostrare era che il vero, autentico riformismo non poteva non collocarsi in una prospettiva di cambiamento rivoluzionaria. Ossia reggersi sulla coppia inseparabile riformismo/rivoluzione. Che era esattamente la prospettiva strategica del PCI di Togliatti della svolta di Salerno. Prospettiva che prefigurava, in base ai rapporti di forza, non l’assalto al Palazzo d’inverno, ma una transizione più o meno lunga, dentro la quale la lotta per le riforme, con tutta la sua valenza unitaria, assumeva una valore strategico.

E guarda caso, le grandi riforme sono state realizzate proprio in quella fase storica di grandi lotte del movimento operaio e contadino, segnate da un’egemonia soverchiante del PCI guidato proprio da quel gruppo “operaista” che poi è stato emarginato.

Stiamo parlando di riforme di grosso tonnellaggio che vanno dalla Costituzione della repubblica allo Statuto dei lavoratori, riforme che hanno spinto molto in avanti il livello delle conquiste sociali e permesso di espugnare alcune delle più importanti “casematte” indicate da Gramsci. Il tutto senza minimamente ostacolare la modernizzazione industriale del paese. Anzi, credo che quelle lotte (ricordo quella degli elettromeccanici) ne siano state il propellente e abbiano impedito di compierla, la modernizzazione, a spese del movimento operaio.

Poi, gradualmente, negli anni a seguire, hanno prevalso nei nuovi gruppi dirigenti del PCI, le idee di coloro che hanno contrapposto a quelle conquiste, costate lacrime e sangue al movimento operaio, quelle realizzate altrove dal riformismo europeo, quello guidato da Willy Brandt, Olaf Palme, dai laburisti inglesi e compiute, si dice, senza scomodare troppo la lotta di classe e men che meno il marxismo leninismo.

Ma a questo punto l’analisi storica andrebbe allargata (e Nella non lo dimentica), ai rapporti di forza esistenti su scala internazionale dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando il campo socialista misurava 10 fusi orari, dall’Elba all’oceano Pacifico, e tra le classi dominanti era ancora diffusa la paura che la storica prospettiva aperta dall’Ottobre sovietico potesse ancora contagiare il movimento operaio che stava al di qua della cortina di ferro.

Quella dimensione internazionale dello scontro di classe è stata un elemento ben presente nelle scelte politiche compiute dal gruppo dirigente del PCI nel dopoguerra. Solo dopo, liquidata la vecchia guardia, qualcosa ha cominciato a cambiare anche nella politica internazionale del partito.

Ne ho avuta percezione, nel 1969, all’epoca del 12° congresso del PCI. Erano trascorsi 5 anni dalla famosa provocazione del Golfo del Tonchino. Il Vietnam stava subendo la più devastante delle aggressioni imperialiste. Del tutto ovvio che il documento di quel congresso esprimesse, in forma del tutto ineccepibile, la piena solidarietà con il popolo aggredito e la condanna dell’imperialismo aggressore. Tuttavia nelle conclusioni di quel paragrafo dedicato al Vietnam era presente una evidente sfasatura. Si auspicava, nell’ordine, una immediata conclusione della pace, poi la libertà e, infine, l’indipendenza del paese. Proposi al congresso della mia sezione, la Sergio Bassi, un emendamento, che senza cambiare la sostanza di quei tre punti – pace, libertà e indipendenza – ne invertisse l’ordine rispettando le priorità decise dai comunisti vietnamiti, che al primo posto mettevano l’indipendenza, ossia la cacciata degli americani dal paese, poi la pace e la libertà. Il dirigente de partito che presiedeva quel congresso si oppose e io fui ovviamente battuto.

Per fortuna che ai comunisti vietnamiti (che avevano persino ignorato i “consigli” di Mosca) importava poco di quello che stava scritto in quel documento e continuarono per la loro strada. I risultati li conosciamo. Quarant’anni dopo ci ritroviamo con una fortissima tigre asiatica in piena crescita economica governata dai comunisti, il Vietnam, e, purtroppo, con un partito comunista in meno, quello italiano, sciolto 20 anni fa alla Bolognina.

I risultati finali di quella deriva a destra sono stati devastanti per tutta la sinistra. Inclusa quella socialdemocratica che vent’anni fa ha esultato per la scomparsa del comunismo, sperando di incassarne la cospicua eredità di voti e di consensi.

A parte l’Italia dove la parola socialdemocrazia è stata rapidamente archiviata, oltre che dai socialisti anche dagli ex comunisti, non è che oggi i partiti socialdemocratici se la passino molto bene in quelle che erano le loro roccaforti europee : in Francia, in Germania, in Inghilterra, in Scandinavia. Credevano di fare l’en plain seppellendo il comunismo e invece il neoliberismo e l’imperialismo sono tornati nelle loro forme più selvagge, ottocentesche. Cosicchè da risultare estinti anche i modelli riformisti della cosiddetta “terza via” che hanno tanto affascinato Enrico Berlinguer e l’eurocomunismo.

E allora non è poi tanto banale chiederci quando e perché è cominciata questa traiettoria verso il basso della sinistra italiana . Non tanto per andare a frugare tra le macerie della storia, quanto per vedere se da questo disastroso risultato si possono trarre lezioni e intravedere i segni di una possibile ripresa del comunismo anche in questa parte del mondo. Peccato che a Nella non siano state poste domande pertinenti su questo tema.

Di carta e di inchiostro se ne è sprecato parecchio a sinistra dopo la caduta del Muro, per classificare i grandi camaleonti dell’ex PCI come i titolari del nuovo riformismo coerente con la sacralità dei valori occidentali. Ossia il nuovo che ha vinto sul vecchio ! Parole molto abusate con molte declinazioni, anche a copertura di iniziative oscene, come quando sono servite per ridare legittimità alla nozione di guerra imperialista. Ricordiamoci del Kosovo, di D’Alema e del suo governo.

Attenzione però ! Spesso accade che la vittoria di uno di questi due elementi dialettici usati contro l’ancien regime – il nuovo contrapposto al vecchio – si volga, contrariamente alle previsioni, a beneficio del suo opposto. E’ quella che gli accademici chiamano eterogenesi dei fini, ossia che certi eventi possano evolvere per fini contrari a quelli sperati da chi li compie. Per fortuna la storia ha già fatto altre volte di questi scherzi.

Se si alza lo sguardo e si osserva quello che sta succedendo nel mondo, in Asia, in Africa, in America latina, cioè alla dimensione internazionale che il comunismo presenta oggi, vent’anni dopo la caduta del Muro, direi le cose non vanno poi tanto male. Il potenziale economico che esprime nella sua versione cinese, vietnamita, cubana, la sua capacità di uscire addirittura rafforzato, dove sta al potere, dalla disastrosa crisi economica del capitalismo, i suoi modelli di sviluppo, sono la forza propulsiva che ispira i paesi in via di sviluppo e quelli del terzo mondo. Un comunismo, anche questo va ricordato, che si colloca in continuità critica e senza rotture con tutta la storia del 20° secolo.

E così ecco che vent’anni dopo la sua morte presunta sono ancora i partiti comunisti che stanno cambiando i rapporti di forza e le gerarchie geopolitiche del pianeta .

Chi l’avrebbe mai detto ?
Possiamo avere anche noi qualche speranza ?
Tutto lascia supporre di si.
Vale comunque la pena di riprovarci.