Le tante trappole del «reddito garantito»

E’ uscito recentemente il libro Reddito garantito e nuovi diritti sociali, frutto di una ricerca dell’Assessorato al Lavoro, Pari Opportunità e Politiche Giovanili della Regione Lazio. L’idea è di offrire delle linee guida alle amministrazioni regionali che intendono proporre forme di basic income. Il volume è importante per due motivi. Formula una proposta politica precisa di reddito garantito, all’interno di una visione più complessa che mira alla revisione ed all’aggiornamento di un sistema di welfare per adeguarlo al nuovo capitalismo flessibile. Fornisce, inoltre, una dettagliata analisi di simili iniziative a livello europeo.
La proposta nasce dall’esigenza di pensare ad un nuovo sistema di welfare che tenga conto della precarietà, ormai dilagante. La nuova organizzazione del lavoro nei paesi a capitalismo avanzato mette in discussione la distinzione netta tra tempo di lavoro e tempo libero, occupazione e inoccupazione. Occorre, quindi, inventare nuove forme di protezione sociale. Nel capitolo «Il reddito per chi, quando, quanto, come e da chi» si suggeriscono le risposte alle domande che un amministratore dovrebbe porsi nel caso volesse introdurre una simile misura: per chi? quanto? quando? come? da chi?. Per chi: a «coloro che vivono sotto una certa soglia di reddito (sia esso il salario minimo, la pensione sociale o altro)» (p.76). E, comunque, per tutti i precari in condizioni di non lavoro e per i soggetti in stato di povertà sotto una soglia minima accettabile. Si pensa così di riuscire anche a frenare la corsa verso il basso dei salari reali: i lavoratori avrebbero l’opportunità di rifiutare lavori servili e poco remunerati, riducendo l’offerta di lavoro e spingendo la retribuzione del lavoro «tradizionale» verso l’alto. Quanto: non viene data una risposta precisa, ma si ricorda che l’ammontare deve essere calcolato tenendo in considerazione i suoi effetti sul livello della spesa pubblica. Quando: «nei casi di squilibrio sociale indotto dalla precarietà, laddove gli individui sono posti di fronte ad una disuguaglianza di opportunità dovuta all’assenza di un reddito adeguato» (p. 80). Come: «l’erogazione potrebbe comporsi sia di una parte monetaria, sia di una parte offerta in natura» (p. 93). Il reddito garantito dovrebbe essere articolato sia come diretto (erogazione monetaria) che come indiretto (erogazione di beni e servizi primari), includendo l’allargamento delle tradizionali forme di garanzia del lavoro così detto «fordista» (ferie, malattie, maternità, etc.) ai lavoratori precari. Da chi: le Regioni sarebbero maggiormente attive sul piano dell’erogazione dei beni e servizi primari, lo Stato centrale sul piano dell’erogazione monetaria.
Condivido l’urgenza di ripensare un sistema di welfare adeguato al nuovo cosiddetto «capitalismo flessibile». Se ci si muove nella direzione del basic income mi sembrerebbe però più ragionevole pensare ad un reddito di esistenza per tutti, incondizionato. Si tratta, è chiaro, di un’idea di difficile applicazione in Italia, perché richiederebbe un sistema fiscale molto progressivo, capace di combattere davvero evasione ed elusione. La proposta, tuttavia, non convince né teoricamente né politicamente. Dal punto di vista teorico, rilevo i seguenti limiti. Erogare un reddito garantito solo ad alcune categorie di soggetti rischia di aumentare la frammentazione del lavoro. Il nuovo capitalismo è riuscito pienamente a dividere il lavoro, ad individualizzare la prestazione lavorativa e a mettere in contrapposizione gli interessi dei ‘garantiti’ (quantitativamente decrescenti) con quelli dei ‘precari’. Occorre piuttosto ricomporre il mondo del lavoro e disegnare interventi politici che sottolineino come la precarizzazione, sia pure in forme diverse, sia un fenomeno trasversale. Bisogna evitare la divisione della società in due sfere, poiché la precarietà non colpisce solo certe fasce di popolazione. Siamo di fronte ad una precarizzazione generale. Se si vuole capirne il significato, non ci si può limitare a registrare che i nuovi entranti sul mercato del lavoro sono sempre più figure con contratti atipici. Infatti, a seconda del ciclo economico, è possibile che si abbia una successiva regolarizzazione di questi lavoratori: e si rimane sguarniti rispetto ad obiezioni alla Ichino (Corriere della Sera, 15/05/06) che chiedono una riduzione delle garanzie dei lavoratori a tempo indeterminato per combattere davvero la precarietà dei «giovani». La vera funzione della precarizzazione sta in altro: nello stabilire un permanente potere di ricatto che rende poco contestabile il comando del capitale dentro il processo di valorizzazione, dentro i luoghi di lavoro. Quale che sia la qualità del lavoro, e talora addirittura quale che sia il salario.
Si può aggiungere che il reddito garantito rischia di spingere tutta la struttura dei salari verso il basso, contrariamente a quanto sostenuto nel volume. I «padroni» avrebbero tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che il lavoratore percepisce anche il reddito garantito. Si indebolisce così, contro le intenzioni, la capacità contrattuale di tutti i lavoratori. Si favorisce, di conseguenza, l’istituirsi di un compromesso malsano tra lavoratori e padroni: i primi offrono salari e posti saltuari, i secondi li accettano perché intanto c’è il reddito garantito. Così i ‘lavori buoni’ spariscono e i ‘lavori cattivi’ dilagano. Oltretutto, misure redistributive di questo tipo (come il reddito garantito, di esistenza, di cittadinanza, etc.) assumono, più o meno esplicitamente, che il capitalismo contemporaneo produca valore e plusvalore in modo stabile, e si basano su interpretazioni del medesimo quanto meno approssimative, anche se diventate ormai luoghi comuni (l’economia della conoscenza, il post-fordismo, etc.). Le classiche forme di redistribuzione hanno funzionato quando collocate in un contesto macroeconomico ben più sostenibile di quello presente. Basti ricordare i ricorrenti fenomeni di instabilità sia reale che finanziaria che si sono susseguiti negli anni più recenti, che rendono le misure meramente redistributive alquanto illusorie, come quella che così si possa davvero sostenere la domanda effettiva. Si riproduce così un vecchio errore del sottoconsumismo, e si dimentica che la dinamica macroeconomica è sostenuta dalle componenti autonome della domanda: investimenti, esportazioni nette, spesa pubblica, il consumo gestito oggi «dall’alto» dalla politica monetaria. La redistribuzione potrà spingere verso l’alto la domanda effettiva solo dentro una politica economica alternativa caratterizzata da una ridefinzione strutturale molto più forte della domanda e dell’offerta, ben diversa dalla pallida ri-regolazione e politica industriale per incentivi e disincentivi, di cui il nuovo governo sembra farsi promotore.
Misure come il reddito garantito possono forse rendere più sopportabile la precarietà nel breve periodo, ma non la eliminano: semmai la cristallizzano e la congelano. Determinano condizioni di maggior debolezza per i lavoratori, poiché rendono più accettabile la frammentazione del lavoro e conducono all’abbandono della lotta per un lavoro vero e garantito per tutti. Politicamente un impianto del genere sembra fatto apposta per creare le basi di uno scambio con la sinistra «moderata»: accettazione più o meno dichiarata della flessibilità in cambio di un qualche sostegno al reddito. Magari affiancata alla riduzione del cuneo fiscale che, ancora una volta, riproduce una idea di ripresa basata sul basso costo del lavoro e che scarica gli effetti sulle politiche, appunto, assistenziali. La triste storia del programma dell’Unione circa la Legge 30 (superamento o cancellazione?) ci insegna qualcosa?

* prof.ssa – università di Bergamo