A che cosa serve la banca centrale? La domanda non è di quelle che accendono l’interesse del lettore, neanche se politicamente avvertito, né si può dargli torto: i manuali di economia, interpellati sul punto, rispondono (con un linguaggio permeato di scostante tecnicismo) che la banca centrale serve a gestire la politica monetaria, vigilare sul mercato creditizio e finanziario e garantire il funzionamento del sistema dei pagamenti. Perché mai interessarsi di cose del genere?
Eppure, storici avveduti evidenziano quanto importante sia stata la funzione comunicativa e di raccordo che i dirigenti della banca centrale, specie in Italia, hanno assunto non solo fra banchieri e politici, ma anche fra banchieri e industriali e tra politici e industriali. Come spiegare codesta funzione se non presupponendo che l’azione della banca d’emissione possieda connotati in qualche modo «politici»? E d’altra parte, dove mai ricercare codesta «politicità» se le funzioni che le sono commesse sono quelle – tecnicissime – poc’anzi descritte?
Ortodossia insufficiente
Visto che la banca centrale ha a che fare con la moneta, possiamo supporre che il bandolo della matassa si debba ricercare in quest’ultima, e dunque che non si possa capire la natura della banca centrale se non si capisce la natura della moneta. È qui, in effetti, che l’ortodossia economica mostra tutta la sua insufficienza: non solo perché, nella sua variante neoclassica, concepisce l’economia capitalistica alla stregua di un’economia di baratto, in cui di moneta non c’è bisogno alcuno, ma anche perché, nella sua variante neo-istituzionalista, focalizza l’attenzione sul carattere di «mezzo di circolazione» della moneta, dimenticando che quest’ultima, come aveva spiegato Marx, è anche una merce che si può desiderare in sé e per sé: «Il denaro – si legge infatti nel terzo libro del Capitale – può essere trasformato in capitale sulla base della produzione capitalistica, e attraverso questa trasformazione diventa, da valore dato, un valore che si valorizza, che aumenta se stesso. Esso produce profitto», e così acquista, «oltre al valore d’uso che esso possiede come denaro, un valore d’uso addizionale, cioè quello di operare come capitale. Il suo valore d’uso consiste qui proprio nel profitto che esso produce, una volta trasformato in capitale. In questa qualità di capitale potenziale, di mezzo per la produzione del profitto, esso diventa merce, ma una merce sui generis. O, in altre parole, il capitale in quanto capitale diventa merce».
Così stando le cose, possiamo meglio comprendere la portata del trade-off che gli studiosi del central banking hanno messo in luce parlando della strutturale «incompletezza» del contratto monetario. È certo, infatti, che ogni «tecnologia di pagamento» (monete metalliche, banconote, cheques e via dicendo) soffre di un problema fondamentale, e cioè che, a meno di una socializzazione integrale dell’economia, non è possibile predefinire quale sarà il valore futuro del denaro. È però sbagliato inferirne che l’unico modo per temperare codesta incertezza sia costituito dalla rigidità dell’offerta di mezzi di pagamento: se l’aumento degli scambi commerciali induce una crescita della domanda di moneta che non può essere soddisfatta, la conseguenza sarà la deflazione dei prezzi, che deprimerà l’attività produttiva al più basso livello consentito dalla quantità complessiva del circolante. La rigidità dell’offerta di moneta assolve in realtà a un’altra funzione, che è quella di preservare – come scrisse Keynes nella Teoria generale – «il potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale»: quanti più vincoli esistono alla produzione di mezzi di pagamento, tanto più elevata sarà infatti la frazione di sovrappiù di cui i rentiers potranno appropriarsi prestando denaro alle imprese e tanto più favorevole, in ultima analisi, sarà per loro la distribuzione del reddito.
Scenari teorici
In altri termini, la tensione irrisolta si dà fra il denaro come mezzo di circolazione della ricchezza e il denaro come capitale: se c’è incertezza sulle prospettive di valorizzazione, il denaro (ossia il capitale monetario) verrà infatti «tesaurizzato», anche a prezzo di deprimere il livello dell’attività produttiva, e ciò avverrà tanto più facilmente quanto più rigida è l’offerta di mezzi di pagamento. D’altra parte, quanto più si rende flessibile l’offerta di questi ultimi, tanto più si deprimerà la capacità del denaro di funzionare come capitale, questa reggendosi esclusivamente sull’artificiale «scarsità» dell’offerta di moneta.
È questo lo scenario teorico alla luce del quale diventa possibile capire «a che cosa serve la banca centrale» e coglierne l’intrinseca dimensione politica. Fino alla fine dell’Ottocento, infatti, l’azione degli istituti di emissione non era praticamente distinta da quella delle altre banche: prevaleva l’opinione che una banca d’emissione fosse una banca come tutte le altre, seppur dotata del potere di emettere monete e banconote aventi corso legale, e la sua «politica monetaria» si risolveva nell’assecondare i bisogni di liquidità espressi dagli operatori economici (speculatori inclusi), fino a quando – s’intende – non le fossero rifluite più cambiali da scontare che denaro sonante.
Crisi di fine Ottocento
Le crisi commerciali e creditizie di fine secolo fecero però emergere il conflitto fra gli azionisti proprietari degli istituti d’emissione (desiderosi che la creazione di liquidità venisse vincolata alla massimizzazione dei profitti della banca e dunque riluttanti a riscontare i crediti a buon mercato) e l’autorità pubblica, sulla quale in ultima analisi venivano a gravare le conseguenze sociali di ogni crollo della piramide creditizia. Man mano che maturava la consapevolezza che le condizioni monetarie di un sistema economico sono inestricabilmente connesse alle sue condizioni reali, si fece strada l’idea che il conflitto latente fra capitale produttivo e capitale finanziario dovesse essere gestito in modo da evitare disordini sociali, e alla banca d’emissione fu attribuito il potere di fornire liquidità al sistema economico nei momenti di difficoltà: giusta l’analisi che Walter Bagehot aveva consegnato al suo celebre Lombard Street (1873), la percezione diffusa che la banca centrale fosse dotata delle «munizioni» per intervenire nei casi di crisi avrebbe dovuto tranquillizzare gli operatori ed evitare il peggio.
Disgraziatamente, così non accadde: «Tutto questo sistema artificiale di ampliamento violento del processo di riproduzione – aveva pronosticato Marx pressoché nello stesso periodo a Bagehot – non può naturalmente essere risanato per il fatto che una banca, ad esempio la Banca d’Inghilterra, fornisce in carta a tutti gli speculatori il capitale che fa loro difetto e acquista al loro antico valore tutte le merci ora deprezzate». Benché a prima vista le crisi apparissero come un fatto monetario, ascrivibile alla carenza di mezzi di pagamento, la loro genesi reale stava nel fatto che il credito sospingeva periodicamente la produzione ben al di là della capacità recettiva del mercato, a sua volta condizionata dalla povertà diffusa delle masse, e così i rovesci finanziari tornarono a manifestarsi prepotentemente nei primi anni del nuovo secolo.
Fu a questo punto che venne in gioco il secondo dei caratteri immanenti al credito, cioè la sua potenziale attitudine a moltiplicare i mezzi di pagamento fino a deprimere la capacità del denaro di funzionare come capitale, sì da costituire – per dirla ancora con Marx – «la forma di transizione verso un nuovo sistema di produzione». Il punto di svolta si ebbe con il primo conflitto mondiale: una volta che i governi belligeranti esclusero il ricorso a forme straordinarie di tassazione, le banche centrali persero la possibilità di sottrarsi alla richiesta di finanziare le spese belliche attraverso l’espansione monetaria. È vero che, alla fine del conflitto, vi fu un tentativo di ricondurre i sistemi monetari e produttivi alle regole d’anteguerra, attribuendo nuovamente alle banche centrali la piena indipendenza dall’esecutivo; ma non appena la deflazione creditizia e la conseguente depressione rivelarono l’insostenibilità sociale e politica della scelta, l’autonomia degli istituti d’emissione venne spazzata via e, grazie alla maggiore flessibilità dell’offerta di moneta, nuovi e prima d’allora impensabili spazi si schiusero per una politica monetaria consapevole e mirata all’interesse collettivo.
Se è vero che la storia procede quasi sempre «dal lato cattivo», non può destare meraviglia che a sperimentare simili spazi siano state per prime le dittature fasciste. Ma – come ha lucidamente osservato Curzio Giannini – «in un contesto così eccezionale come quello delineatosi negli anni Trenta, la distinzione fra destra e sinistra, se utile per classificare le istituzioni politiche, lo è molto meno per classificare le politiche economiche»: al di là delle etichette, «i governi post-depressione erano accomunati da un programma economico molto simile, nei suoi capisaldi sostanzialmente socialista». Il ruolo dello stato andava ovunque modificandosi e preludeva a un vero e proprio cambiamento nel modo di produrre e distribuire la ricchezza, nell’ambito del quale il merito delle politiche pubbliche non sarebbe più dipeso dal loro costo in termini di moneta, bensì dalla loro efficacia nel trarre il massimo risultato possibile dalle risorse reali di un paese: lavoro, terra, macchine, fabbriche. I primi anni del secondo dopoguerra consolidano quello scenario e l’obiettivo del pieno impiego fa la sua comparsa perfino nei testi di legge. Nei sistemi economici che emergono dal conflitto – forme miste di economia diretta secondo piani e programmi pubblici – le banche centrali sono ormai nazionalizzate o comunque assoggettate al controllo pubblico, coerentemente con un celebre ammonimento di Keynes: «La disoccupazione si sviluppa perché la gente vuole la luna: gli uomini non possono essere occupati quando l’oggetto del desiderio (cioè la moneta) è qualcosa che non può essere prodotta e la cui domanda non può essere facilmente ristretta. Non vi è alcun rimedio, salvo che persuadere il pubblico che il formaggio sia la stessa cosa della moneta e avere una fabbrica di formaggio (ossia una banca centrale) sotto il controllo pubblico». E a metà degli anni Sessanta, Guido Carli, allora governatore della Banca d’Italia, così riassume il mutato ruolo della banca centrale nel nuovo contesto: «Il banchiere centrale è un “superbanchiere”, che deve fare istituzionalmente una continua valutazione delle capacità di intrapresa, delle possibilità di riuscita, dell’accettabilità dei calcoli e delle previsioni di quel “supercliente” che è il sistema economico, il quale abbia preparato per mezzo dei suoi organi (governo, imprese, sindacati) un “superprogetto” e desideri ottenerne l’appoggio finanziario».
Non induca in errore l’autoattribuzione di margini di discrezionalità tecnica: sette anni più tardi, nel domandarsi retoricamente se la Banca d’Italia avrebbe potuto rifiutare il finanziamento del disavanzo del settore pubblico, mettendo così lo stato nell’impossibilità di pagare stipendi e pensioni, lo stesso Carli scrisse che un rifiuto del genere avrebbe avuto «l’apparenza di un atto di politica monetaria», ma «nella sostanza, sarebbe stato un atto sedizioso». Non è un caso che taluni storici monetari l’abbiano considerato addirittura un imbelle, incapace di contrastare la spinta inflazionistica (e redistributiva) dell’autunno caldo.
Strette monetarie
Sono invece ancora tutti da scrivere i motivi che, a metà degli anni Settanta, provocano la crisi delle economie miste. Nella babele dei linguaggi e dell’inflazione a due cifre, un’idea emerge però prepotente, ed è che l’unico modo per arginare la degenerazione sia quello di affidarsi alla stretta monetaria, incaricandone la banca centrale e rendendola indipendente da qualunque influenza del governo. Non è una scelta politicamente neutra: esattamente come la flessibilizzazione dell’offerta di moneta aveva mediato la transizione verso un sistema in cui lo stato si era assunto, keynesianamente, «una sempre maggiore responsabilità nell’organizzare direttamente l’investimento», la stretta monetaria innesca la transizione inversa, ridà cioè peso, fiato e voce al «denaro come capitale».
Sull’esempio di Paul Volcker (governatore della banca centrale americana e artefice di un rialzo del tasso di sconto così drastico da permettere il ritorno a valori positivi del tasso d’interesse reale e scongiurare il pericolo incombente dell’eutanasia del rentier), è Carlo Azeglio Ciampi, qui da noi, a dettare la linea nelle Considerazioni finali del 1981: «Il ritorno a una moneta stabile richiede un vero cambiamento di costituzione monetaria, che coinvolge la funzione della banca centrale, le procedure per le decisioni di spesa pubblica e quelle per la distribuzione del reddito. Prima condizione è che il potere sulla moneta si eserciti in completa autonomia dai centri in cui si decide la spesa».
Tutto il resto – inclusi Maastricht, le privatizzazioni, la fobia per il debito pubblico e quell’autentico pendant della rigidità monetaria che è la precarizzazione del lavoro – viene da là. Dunque, a che cosa serve la banca centrale?