Le risposte contraddittorie del governo Prodi

Proprio le privatizzazioni del passato illustrano bene quanto è complesso il tragitto dal pubblico al privato, e quante volte occorrerà moderare o evitare la privatizzazione e migliorare, invece, il controllo pubblico da un lato e la produzione pubblica dall’altro. In alcuni casi deve essere anche possibile riportare la produzione in ambito pubblico.

La deriva antistatale è inevitabile se le riforme sono dettate dall’equilibrio dei conti finanziari

Alcuni segnali di una nuova attenzione al ruolo del settore pubblico sono evidenti nell’azione dell’attuale governo. Mi riferisco, per cominciare, alla ripresa del tema della politica industriale. Questa è vista come una riduzione dell’”impaccio” provocato dalla pubblica amministrazione e dalle corporazioni allo sviluppo della competitività delle imprese, e sarebbe dunque un richiamo alla teoria dello Stato Minimo, ma allo stesso tempo rompe un tabù di origine europea. La Commissione, infatti, ha sempre negato ogni legittimità alle politiche industriali. Quale che sia la direzione presa per privatizzare e liberalizzare, il processo non può più avere la semplicità, e la rozzezza, di quanto si è fatto negli anni Novanta. Era già allora evidente che non si poteva utilizzare un solo strumento – la privatizzazione – per ottenere due obiettivi: entrate sufficienti a ridurre il rapporto debito/Pil per riuscire ad entrare nella moneta unica e maggiore efficienza e minori prezzi per i beni e i servizi privatizzati.

Oggi occorre ricostruire sia la logica della privatizzazione, compreso il calcolo della sua reale convenienza economico-collettiva, sia il sistema che conduce al risultato richiesto, e cioè alla riduzione dell’“impaccio” creato dal settore pubblico all’impresa. Proprio le privatizzazioni del passato illustrano bene quanto è complesso il tragitto dal pubblico al privato, e quante volte occorrerà moderare o evitare la privatizzazione e migliorare, invece, il controllo pubblico da un lato e la produzione pubblica dall’altro. Nel primo caso, il ruolo del settore pubblico si arricchisce di nuove professionalità; si tratta, infatti, di assicurare che vengano raggiunti gli obiettivi pubblici prefissati, sempre complessi e non riconducibili a facili concetti di efficienza aziendale. Quando una tale assicurazione non è ottenibile, allora deve essere possibile riportare la produzione in ambito pubblico. Un esempio è quello dei servizi pubblici locali, che da oltre un decennio oscillano tra destino privatistico e in house.

Altri segnali positivi, sul ruolo del settore pubblico, provengono da diversi dicasteri. Che il ministro delle Infrastrutture riveda il comportamento dei concessionari, è una grande novità: da sempre le concessioni in Italia si rilasciano senza sufficienti controlli, con contratti che spesso favoriscono i concessionari. Sono ormai passati quasi tre lustri dalle prime privatizzazioni e quasi altrettanto tempo dal lancio del project financing, dall’innovazione nel mix pubblico-privato e, più recentemente, dal ricorso a forme contrattuali che deresponsabilizzano il settore pubblico, come la figura del general contractor nelle opere pubbliche. Si è trattato, spesso, di casi nei quali la motivazione del ritiro dello Stato sta nella scarsitàdi risorse e non nella migliore efficienza della spesa, e un cambiamento di rotta è benvenuto. Il ministro dell’Università e della Ricerca dà un nuovo impulso alla ricerca pubblica, e costruisce un ruolo rafforzato nelle procedure e negli strumenti alla valutazione dell’intervento pubblico nelle università e nei centri pubblici di ricerca. La valutazione non è un semplice esercizio volto a distinguere chi ha meriti da chi non li ha, ma è anche il metodo necessario per migliorare l’intervento pubblico. Da parte sua il ministro dello Sviluppo finalizza gli aiuti di Stato all’innovazione, e riduce la priorità degli incentivi volti alla semplice capitalizzazione delle imprese: ciò comporta una capacità dello Stato molto ben fondata tecnicamente e scientificamente nel discernere i beneficiari. Anche la visione dello sviluppo per poli, anziché per settore, impegna l’amministrazione pubblica in un lavoro preciso, dettagliato, e carico di poteri decisionali, e non affidato soltanto al negoziato tra poteri pubblici. Sui Trasporti, il ministro sa che le privatizzazioni delle ferrovie sono state un errore e cerca soluzioni non banali al rifinanziamento del sistema ferroviario. In materia di Ambiente si è rimesso in discussione il decreto legislativo del governo precedente, con l’intento di precisare e dare impulso al ruolo pubblico, perché il principio (liberale) “dell’inquinatore paga” sia rispettato. Infine, anche se mal pensato, il trasferimento di parte del Tfr all’Inps è un segno di nuova pubblicizzazione di un istituto sostanzialmente privato.

I segnali più forti, tuttavia, vanno in direzione opposta. Basta guardare al Dpef e, soprattutto, alla Legge Finanziaria che assoggetta ogni obiettivo pubblico al rispetto dei saldi desiderati dalla Commissione Europea. Non si tratta di un vincolo non negoziabile, perché il Trattato è stato ormai interpretato (consentendo programmi di rientro pluriennali per la Francia, la Germania, il Portogallo, la Grecia). Soprattutto, non c’è una giustificazione economica alla deriva “antistatale” della Commissione Europea, e il governo attuale avrebbe potuto combattere una battaglia di buon senso, invece di allinearsi subito alle raccomandazioni europee. Ora, non si può obbedire al Patto di stabilità e crescita senza averne investigato le conseguenze, soprattutto perché “ad impossibilia nemo tenetur”: il risultato è che il governo non solo fa propria l’ideologia della Comunità Europea, ma si piega al dettato di questa particolare Commissione Europea, molto conservatrice. Se il ruolo pubblico nazionale è umiliato e se, contemporaneamente, gli Stati membri non intendono attribuire all’Unione poteri realmente statuali, allora ogni politica volta a rispettare il Patto di stabilità finisce per erodere lo scopo della stessa Unione e si finisce per essere antieuropeisti: con bilanci pubblici in riduzione, liberalizzazioni sempre più accentuate, un ruolo pubblico europeo sempre più evanescente, si perderebbe la ragion d’essere per una Comunità Europea, e l’Euro potrebbe facilmente diventare un’appendice del dollaro.

Sappiamo che la Legge Finanziaria non è lo strumento per riforme strutturali, ma paradossalmente le sue politiche riformano effettivamente le strutture pubbliche, e proprio per le conseguenze del Trattato europeo. Per avere unadimostrazione di ciò, basta considerare il disprezzo con il quale si guarda alla spesa corrente, e in particolare a quella dei consumi intermedi. Si assistea un tradizionale pregiudizio che privilegia la spesa per investimenti rispetto alla spesa corrente. Si tratta di un residuo agro-pastorale che fa derivare le politiche pubbliche dal familismo più antico: per il quale il risparmio è virtù e il consumo vizio. Non si è cercato di costruire un “zero base budget”, e cioè un bilancio che riparta da zero nel distribuire le risorse alle voci di spesa, a loro volta ridefinite in base agli obiettivi di lungo periodo, rinunciando al criterio della spesa incrementale, che caratterizza da sempre le leggi Finanziarie.

È possibile che non vi sia stato tempo per condurre un esercizio così complesso, ma sarebbe stata un’indicazione del nuovo modo di concepire il ruolo dello Stato se si fosse avanzata la proposta, e si fosse chiesto all’Ue di consentirci il necessario periodo di grazia. Si poteva, però, fare anche un passo meno lungo, distinguendo dal resto la spesa corrente necessaria per accompagnare gli investimenti pubblici: non sarebbe stato un cambiamento profondo, ma avrebbe indicato che almeno le conseguenze della spesa in conto capitale per la spesa corrente sono tenute presenti nel bilancio dello Stato. Un segno negativo, di natura generale, è la concentrazione dell’azione di risanamento sulla spesa dei grandi aggregati: pubblico impiego, sanità, previdenza, enti locali. Poiché il pubblico impiego è, per una gran parte, fatto da insegnanti e personale sanitario, la tendenza è di colpire il bersaglio grosso, indipendentemente dalla funzione degli organi colpiti. Si sottintende che c’è un eccesso di docenti, che impedisce l’aumento della qualità dell’insegnamento, e che determina una produttività molto bassa.

Ora, c’è molto da innovare nella scuola italiana, e una Legge Finanziaria non fa riforme. Ma i tagli alla spesa sono già una riforma, benché manchino di una specifica razionalità, ed eccitano comportamenti difensivi e corporativi che rendono più difficile una vera riforma. Analogamente, è significativo che il finanziamento della spesa sanitaria sia affidato, sia pure parzialmente, a nuovi ticket. Qui si noterà una contraddizione: da un lato si aumenta la progressività dell’imposta sul reddito, dall’altro si introduce una tassa in cifra fissa (il ticket), la più ingiusta delle imposte; le proporzioni sono molto diverse, ma i principi della progressività fiscale e quello dell’universalità del servizio sono intaccati, con la conseguenza che il prezzo ombra della sanità cresce e spinge i percettori di redditi elevati verso la sanità privata. La sanità come servizio universale cede gradualmente il passo a un doppio regime: privato e ad alta efficienza per i redditi elevati e gli evasori, pubblico ma a bassa efficienza e basso prezzo per gli utenti a reddito medio e basso. La parziale attenzione al ruolo del settore pubblico nella Legge Finanziaria può, in parte, derivare da una scelta politica. Come nel 1996 fu l’entrata nell’Euro che giustificò interventi straordinari, così oggi il ministro dell’Economia attribuisce al rispetto dei parametri di Maastricht una analoga giustificazione: l’usbergo della Commissione sembrava potesse costituire un obiettivo mobilitante il consenso. Succede, invece, che il Governo è accusato di effettuare pochi tagli alla spesa pubblica, e di essersi concentrato soprattutto su nuove entrate. Questa tesi non è respinta dal Governo: che anzi rinvia a future riforme ulteriori tagli di spesa, in particolare per pensioni, sanità e impiego pubblico. Così le riforme sono dettate dall’equilibrio di conti finanziari; poiché dovrebbe essere il contrario, e quell’equilibrio derivare dalle riforme, siamo di fronte, di nuovo, a una deriva antistatale e, come si sa, senza Stato non c’è democrazia.