Le risorse della sinistra

Come si orienterà l’auspicabile futuro governo dell’Unione in materia di debito pubblico? Si tratta di una questione cruciale perché è chiaro che se il governo scegliesse la via dell’abbattimento del debito non rimarrebbero risorse sufficienti per portare l’economia italiana fuori dalle paludi del berlusconismo. Di ciò molti, a sinistra, sembrano consapevoli. Ho proposto questo tema in occasione del Convegno Rive Gauche – del quale in questi giorni escono in libreria gli atti, pubblicati da Manifestolibri – e ho tentato di puntualizzare la tesi con l’articolo «Rilancio senza risanamento» ( il manifesto , 3 gennaio). In entrambi i casi il dibattito che ne è scaturito mostra che a sinistra prevale una netta contrarietà ai piani di abbattimento del debito e sussiste anche la consapevolezza, da un lato, della necessità di ridiscutere radicalmente i vincoli di Maastricht e, dall’altro, di concentrare le risorse pubbliche nella direzione dello sviluppo e del welfare . Ma torniamo alla domanda iniziale: come si muoverà l’eventuale governo dell’Unione? In verità, il programma dell’Unione non è univoco su questo punto. Del resto è ben nota l’accesa dialettica sviluppatasi a riguardo in seno al tavolo programmatico. In alcuni passaggi del testo viene esaltata la difficoltà della finanza pubblica e la necessità di ridurre il debito in rapporto al Pil. Tuttavia – come ha opportunamente sottolineato Alfonso Gianni ( Liberazione , 21 febbraio) – il programma respinge esplicitamente la cosiddetta «politica dei due tempi» (prima risanamento e poi sviluppo) e mette in campo linee di politica economica (per una nuova politica industriale e dell’ambiente, per il Mezzogiorno, per lo stato sociale, per l’infrastrutturazione generale del Paese) che necessitano di risorse ingenti. Sarebbe molto ingenuo pensare che sia possibile mettere in campo queste politiche e contemporaneamente abbattere il debito pubblico finanziando il tutto attraverso la tassazione delle rendite e la lotta alla evasione fiscale. I dati parlano chiaro (a riguardo rinvio agli articoli mio e di Alessandro Santoro ospitati da il manifesto del 3 gennaio scorso). Il problema è che le forze moderate dell’Unione appaiono tuttora legate a filo doppio al carro guidato dalla Bce e dai liberisti di tutta Europa, che quotidianamente invocano rigore finanziario, contrazione dell’intervento pubblico e libero mercato. Nonostante la crisi del neoliberismo, questo indirizzo appare tuttora talmente pervasivo da insinuarsi surrettiziamente anche in ambiti a noi molto prossimi. Per un esempio istruttivo, basti guardare l’intervista recentemente rilasciata a il manifesto (24 gennaio) da Marcello Messori, coordinatore della sezione scienze sociali per la Fondazione Di Vittorio. Nell’intervista, Messori critica la mia proposta per la stabilizzazione del debito e l’utilizzo di tutte le risorse per il rilancio del sistema. Pur nella consapevolezza che il Trattato di Maastricht non prevede meccanismi sanzionatori per gli stati che hanno un debito superiore al 60% del Pil, Messori insiste sulla necessità di una politica di abbattimento del debito. Temo che la posizione di Messori sia irrimediabilmente contraddittoria. Egli cerca infatti di tenere assieme due cose che cozzano l’una contro l’altra: da un lato il rispetto del vincolo di Maastricht sul debito e dall’altro il varo di costose politiche che «ricollochino l’economia italiana su un sentiero di sviluppo», anche attraverso processi di rinconversione industriale che facciano compiere un salto tecnologico alla nostra industria. Si tratta di una linea di indirizzo senza dubbio affascinante, alla quale saremmo tutti lieti di aderire. Sfortunatamente, però, Messori non offre alcun dato a sostegno della sua tesi. Anzi – come ha precisamente rilevato Stefano Lucarelli ( il manifesto , 18 febbraio) – nei 3 volumi che raccolgono le ricerche coordinate da Messori per la Di Vittorio non vi è alcun tentativo di analisi dei possibili scenari di andamento del debito pubblico e degli avanzi primari che sarebbero necessari a controllarlo, sotto diverse ipotesi di andamento del costo medio del debito e del tasso di crescita del Pil nominale. Per di più Messori, nella sua intervista, sembra pure cadere in una svista tecnica. Egli infatti mi imputa di procedere sulla base di valori medi attesi del differenziale tra tassi di interesse e tassi di crescita del Pil nominale. Va da sé che sarebbe possibile costruire un intero ventaglio di sentieri, in funzione dei diversi andamenti di queste variabili. Ma Messori, studioso raffinato e autorevole, sa benissimo che è sempre possibile definire per ogni data differenza tra le due variabili un equilibrio stazionario al quale il rapporto tra debito e Pil risulti stabilizzato. Le notizie degli ultimi giorni hanno reso ancora più fosco il quadro dell’economia italiana. Nel 2005 il prodotto interno lordo non è cresciuto affatto, mentre il resto d’Europa – che pure se la cava male rispetto alle altre aree industrializzate del mondo – registra tassi di crescita medi intorno al 2%. Per di più la Bce è nuovamente intervenuta, nel solco della sua scellerata politica monetarista, alzando il tasso di riferimento. È chiaro che l’unica speranza del paese è affidata alle urne, a un governo dell’Unione, a una stagione di intervento pubblico nell’economia. Sarebbe un terribile scherzo del destino se proprio un governo di centrosinistra dovesse immolare le aspettative di rilancio della nostra economia, e dell’intera società, sull’altare dell’ideologia liberista della sana finanza pubblica.

*Università del Sannio