L’articolo di Gennaro Migliore apparso su Liberazione di sabato scorso ha il merito di rendere chiara la questione che si pone ora nella tassazione dei redditi da risparmio (cosiddette rendite finanziarie). O si trova una possibilità di detassare i titoli già emessi e esentare determinate categorie di risparmiatori, dice Migliore, oppure si procede all’innalzamento per tutti, spiegandone le ragioni. Ebbene, è il caso di sgombrare subito il campo: non esiste la possibilità di rivedere in modo tecnicamente ammissibile le regole di tassazione solo per i titoli di nuova emissione. Ciò perché si creerebbe una segmentazione del mercato, mantenendo in circolazione titoli simili ma con tassazione diversa e conseguente caos organizzativo a carico degli intermediari e possibilità di arbitraggio. Anche la proposta di esentare determinate categorie di risparmiatori è di difficile attuazione, a meno di non sconvolgere il sistema attuale, che prevede l’inserimento dei redditi da risparmio in dichiarazione solo come eccezione e non come regola.
Dunque, l’unica strada è quella di andare ad un’innalzamento per tutti i titoli e per tutti i risparmiatori, sapendo che il fatto (accertato) che i redditi da risparmio sono concentrati tra le famiglie di reddito medio-alto è di per sé garanzia dell’effetto progressivo del provvedimento. Tuttavia, la posizione di chi avversa questa soluzione nel centrosinistra, pur essendo tecnicamente insostenibile, non è del tutto incomprensibile. Anzi, è comprensibilissima alla luce di quanto accaduto e detto in campagna elettorale. Una vicenda che merita di essere brevemente rivisitata per capire, al di là della questione specifica, dove stia parte del problema nel difficile rapporto tra il fisco e il centrosinistra.
Subito dopo la presentazione del programma dell’Unione, parte il (prevedibilissimo) attacco del centrodestra alle proposte fiscali. Quella concernente l’armonizzazione delle aliquote di tassazione del reddito da risparmio è tra le più bersagliate. Si tratta, tuttavia, di una proposta del tutto ragionevole che ha precise giustificazioni sia sul piano della neutralità del sistema fiscale (e quindi dell’efficienza) sia su quello dell’equità. Ciò nonostante, i leader del centrosinistra, inclusi alcuni esponenti della sinistra della coalizione, danno subito l’impressione di “battere in ritirata”. Inizia un (ammettiamolo) imbarazzante balletto di dichiarazioni sulle soglie di esenzione, sulle tipologie di risparmiatori e sui titoli da esentare. Una retromarcia non solo incomprensibile, ma anche del tutto inutile di fronte alla coerente retorica antifiscale dello schieramento opposto. Lo stesso tipo di reazione illogica ha portato alla sciagurata proposta di riduzione del cuneo fiscale, che ha originato, a cascata, una serie di problemi esplosi poi con la legge finanziaria.
Quando si parla di fisco, il centrosinistra non sembra riuscire ad evitare l’attrazione fatale di due posizioni, entrambe sbagliate. Quella di chi ritiene che fare un discorso serio sulla necessità di ridare dignità e piena legittimità sociale, prima ancora che politica, al prelievo fiscale sia, di per sé, un discorso estremista e fonte di perdita di consenso elettorale. E quella di chi pensa che ogni problema della nostra situazione economica e sociale, dalla diseguaglianza alla debolezza del sistema produttivo, sia risolvibile per via fiscale. Curiosamente, poi, entrambe queste componenti sembrano dimenticare che la “madre di tutte le battaglie” fiscali, cioè la lotta all’evasione, è solo all’inizio e meriterebbe un’attenzione maggiore rispetto all’ossessione sulle aliquote che periodicamente si ripete (ieri sull’Irpef, oggi sulla tassazione dei redditi da risparmio).