Sarà il mio connaturato pessimismo, sarà la mia insofferenza per la politica politicante, ma ho trovato la cronaca di questa crisi strisciante del governo Berlusconi davvero deprimente. Lo so che il termine può apparire inopportuno in un momento in cui invece sarebbe naturale brindare all’esaurimento di una delle peggiori esperienze politiche dell’Italia repubblicana. Ma mi pare il più realistico. Abuso troppo del paradosso se dico che in queste settimane l’unica opposizione reale nel nostro sistema politico mi è sembrata incarnarsi nell’improbabile Follini? E che, se tutto va bene, passerà nelle mani di Umberto Bossi, dal suo Aventino svizzero? Gli altri, quelli che l’opposizione dovrebbero farla per «dovere istituzionale», diciamo così, danno l’impressione di giocare la stessa partita su un altro campo, offrendo una sconcertante sensazione fantasmatica. Né mi sembra che le pur sensate ricette di chi, come Asor Rosa e altri, sollecita una rapida ricomposizione della «sinistra del centro-sinistra», bastino a restituire un corpo al fantasma. Utili. Indispensabili. Ma non risolutive se lasciate alla sola logica relazionale dei gruppi. Ricordano un po’ – scusate l’impertinenza – il tentativo del barone di Munchausen di sollevarsi in aria tirandosi per il codino. D’altra parte la questione che abbiamo di fronte è davvero di quelle cruciali, che chiamano in causa non solo il piano istituzionale, ma anche livelli più profondi (sociale, culturale, persino antropologico). Potremmo chiamarla «la fine del berlusconismo». L’espressione è stata usata da Fausto Bertinotti nel commento a caldo delle elezioni europee. Ed è seducente ed efficace. Ma richiede di essere precisata. Che cosa intendiamo con essa? Solo la fine della centralità di Silvio Berlusconi all’interno del centro destra? O qualcosa di più? In occasione del decennale di Forza Italia, Panebianco aveva scritto sul Corriere che il merito di Berlusconi era stato quello di «legittimare il capitalismo in Italia», in contrapposizione alle due culture politiche della prima repubblica, quella cattolica e quella comunista, entrambe diffidenti nei confronti dell’economia di mercato. Come se l’essenza del berlusconismo fosse appunto un’adesione allo spirito del capitalismo inedita fino ad allora nel panorama politico italiano.
La cosa sulle prime mi era parsa bizzarra perché, dati alla mano, mi sembrava evidente che il «vero» capitalismo italiano – a partire dalla grande industria fino all’ingresso nel mercato europeo – si era strutturato proprio nei decenni della deprecata Prima repubblica. Tutt’al più nel «decennio berlusconiano» si è assistito alla decostruzione di quel patrimonio. Alle grandi dismissioni. Alla fine dei grandi gruppi e delle grandi imprese. Alla molecolarizzazione di quel modello. Poi credo di aver capito: quello che intendeva Panebianco non era il capitalismo ma l’ideologia capitalistica. Non l’economia industriale di mercato ma l’antropologia dell’individualismo possessivo. Insomma, il mito del «capitalismo di massa», inteso come speranza (illusione) dell’arricchimento personale. Nell’immaginario berlusconiano non c’erano ciminiere ed altiforni, né dentati profili di fabbriche. C’era la promessa giuliva di un bel pacco di soldi fatta a padroncini di capannoni, a microimprenditori di se stessi, soprattutto alla moltitudine di utenti dei «borsini» lanciati ad acquistare bond Parmalat e Cirio, a invadere i canali del Nasdaq, a contendersi questo o quel titolo di volta in volta «sospeso per eccesso di rialzo»… indifferenti alla sorte dello Stato sociale (anzi, visceralmente ostili ad esso) perché convinti che l’assicurazione sul futuro se la potessero fare in banca, lasciando crescere su se stesso il proprio conto. Su quell’hard core di consenso, si sarebbero ridefiniti i rapporti anche con i poteri forti, in un nuovo «blocco sociale» contrapposto a quello «industriale-operaio» della prima repubblica. Quella cosa lì è durata fin che è durata: ha raggiunto il proprio apice intorno al Duemila, in corrispondenza col tetto del Mibtel (trainando la vittoria del 2001). E’ ancora rimasta un po’in bilico nel periodo successivo, animata dalle speranze di improbabili «rimbalzi». E si è infranta definitivamente del 2003 (questo Panebianco non lo diceva), con i grandi crolli di Cragnotti e di Tanzi.
E’ andato in malora lì il berlusconismo: con i pensionati rovinati, i Tfr bruciati in una settimana, le casalinghe di Voghera in lacrime con le loro obbligazioni argentine ridotte a carta straccia. Il ceto medio italiano colpito al cuore (simbolicamente e materialmente): in qualche misura – se mi si passa il paragone – quanto avvenne alla classe operaia con l’autunno `80. O quanto avvenne alla prima repubblica con la fine del «regime dei Bot» all’inizio degli anni `90. Allora, potremmo dire, è saltato il «blocco sociale» su cui si reggeva. Né è un caso che il berlusconismo si sia decomposto lì dove si era aggregato: nel profondo nord in fibrillazione per eccesso di innovazione e di modernità. Lì dove i deliri post-industriali si creano e si consumano in fretta.
Il problema ora è capire che cosa riempirà quel vuoto. Potrebbe svilupparsi nel centro sinistra (e i presupposti, ahimé, ci sono tutti) la tentazione di candidarsi a gestire una sorta di «berlusconismo senza Berlusconi». Di promettere un modello non molto differente dal punto di vista sociale (ancora l’enrichissez vous, forse un po’ più pudico; ancora l’idea di un consenso alimentato dalla promessa d’un incremento costante di reddito e consumi…), da realizzare magari con maggiore prudenza. Con un rapporto meno aggressivo con i poteri tradizionali, le vecchie famiglie del capitalismo, i sindacati (a condizione che si facciano ragionevoli e scarichino quegli «estremisti» della Fiom). Soprattutto con maggiore «stile»: meno barzellette, più serietà tecnica. Così come potrebbe maturare l’idea di tenere in sella un «Berlusconi senza berlusconismo». Di garantire con qualunque mezzo la continuità al potere dell’uomo che avrebbe tutto da perdere lasciando il governo, anche senza più il «blocco sociale» di sostegno. Semplicemente forzando ancora i limiti della Costituzione. Affidandosi ai colpi di mano istituzionali.
Potrebbe infine profilarsi una terza alternativa (l’unica virtuosa, tra quelle che riesco a ipotizzare): ed è quella che punta a uno riempimento «dal basso» di quel vuoto. All’azione «di territorio». Al lavoro relazionale che si gioca nelle reti di prossimità, al livello del municipio, dell’area urbana, dei quartieri. Là dove la crisi materiale lavora. Dove rischiano di aggregarsi i grumi di rancore che possono alimentare i peggiori progetti di potere. Ma anche là dove si sperimentano gli antidoti alla disgregazione sociale. Le forme pratiche della comunicazione interpersonale e della solidarietà. Insomma, là dove si lavora sull’ipotesi di una «nuova antropologia», fuori dai giochi mediatici ma poveri della dimensione nazionale. Gli ottimi risultati delle elezioni amministrative dovrebbero dirci qualcosa. Di lì, si potrebbe andare avanti. Faccio un solo esempio, tra i tanti possibili: esattamente in questi giorni cade l’anniversario dei fatti di Genova, e dell’assassinio di Carlo Giuliani. Sarebbe una buona verifica «dei valori» giudicare lì, sul territorio in cui tutto si consumò – più che sulle dichiarazioni dei Fassino e dei Rutelli -, chi ci sta e chi no a fare dell’esperienza vissuta, delle pratiche collettive e della loro memoria, un terreno di ricostruzione di alleanze, di identità e di una «politica altra».