Le prospettive della crescita

L’emergere negli ultimi anni di un dibattito sui temi del cambiamento tecnologico e dello sviluppo economico mostra come non sia più pensabile ragionare di crescita dei sistemi industriali prescindendo dal ruolo rivestito dai specifici «sistemi nazionali d’innovazione». Diversamente dalle fasi originarie dello sviluppo industriale, nelle quali l’attività inventiva era il presupposto di una qualche «rivoluzione tecnologica» e l’aumento di efficienza del sistema produttivo appariva come l’esito dell’esplicarsi del potenziate innovativo di tale rivoluzione, il progresso tecnologico attuale si è progressivamente imposto in forme più composite. La possibilità di distinguere la natura «inventiva» del progresso dalla sua dimensione «innovativa» collegata al mercato, appare sempre più sfumata, modificando di conseguenza l’importanza di quegli interrogativi intorno a questa distinzione che la riflessione economica aveva da tempo posto alla sua attenzione.
Il peso economico delle produzioni ad elevato contenuto tecnologico è in forte crescita e condiziona la composizione della destinazione della produzione finale. La componente ad alta tecnologia del commercio internazionale è passata dal 15% del 1985 al 25% del 2004, mentre i beni strumentali e intermedi hanno fatto registrare tassi di crescita in linea con i beni e servizi ad alto contenuto tecnologico. Il dato relativo ai brevetti indica un evidente spostamento delle risorse produttive nella direzione di questi beni, con una quota dei brevetti nei settori ad alta tecnologia sul totale dei brevetti mondiali che passa da valori intorno al 40% nei primi anni ’90, a valori superiori al 45% nei primi anni del 2005. Usa, Giappone e Ue continuano ad essere le aree di maggior rilievo dal punto di vista delle politiche tecnologiche: l’attività brevettuale resta per oltre il 90% di provenienza da queste tre aree con una diminuzione dell’ordine del 2-3% nell’arco di 20 anni, essenzialmente recuperata dai Nic’s. Se l’Europa conferma il suo ruolo internazionale, si accentua la tripartizione geo-economica tra un’Europa del Nord e scandinava, con forte sviluppo della spesa in R&S e di alcune specializzazioni tecnologiche, un’Europa Centrale con i tradizionali «grandi» paesi industrializzati, apprezzabilmente competitivi ma più equilibrati nella distribuzione delle specializzazioni tecnologiche, e un’Europa del Sud (Spagna, Italia, Portogallo e Grecia) debole sotto il profilo tecnologico e caratterizzata da crescenti deficit dei saldi commerciali. Per l’Italia, se possibile, la situazione è più delicata: nel primo quinquennio del 2000 si manifesta una divergenza dalle performance commerciali della Ue.
Non deve quindi meravigliare se dopo vari anni di variazione della produzione industriale inferiore a quella dell’Ue, per la prima volta nel 2005 anche la variazione degli investimenti fissi lordi risulta non solo minore di quella dell’Ue e negativa: 2,1% dell’UE contro – 0,6% dell’Italia. Ma l’attuale scenario economico internazionale è significativamente più incerto.
La possibilità di una crescita economica dell’Europa non passa solo attraverso una politica comune, ma anche dalla domanda che si forma sul mercato internazionale, in particolare di quella statunitense. L’Europa deve perseguire gli obbiettivi di Lisbona 2000 in ragione della mutata composizione e peso dei fattori di produzione che generano ricchezza, diversamente sarebbe impossibile alimentare qualsiasi accenno di crescita, ma la sofferenza finanziaria degli Stati Uniti, sia della pubblica amministrazione e sia delle famiglie (Lo stock di debito detenuto dal pubblico è passato da 3.300 (2001) a 5.600 dollari (2006) ) può limitare le potenzialità di crescita della stessa Ue come dei paesi membri. Infatti, gli spazi per una politica espansiva statunitense per far fronte alla relativa caduta di crescita del Pil avvenuta dal 2000 al 2005, rispetto ai primi anni del 2000, sono ridotti se non impossibili. È vero che gli Stati Uniti sono un Paese anomalo in quanto il commercio internazionale e regolato dal dollaro, ma la crescita del deficit commerciale, come quello della pubblica amministrazione, ha delle implicazioni internazionali rilevanti per quanto attiene i tassi di interesse e la destinazione degli Ide (Investimenti diretti esteri), per non parlare della dipendenza finanziaria, o legame stretto, che può maturare con chi finanzia il deficit statunitense. Infatti, il deficit commerciale degli Stati Uniti è passato da 416,0 mld di dollari a 804,9 mld di dollari.