Che la luna di miele del dopo-11 settembre, iniziata in Afghanistan, sia del tutto tramontata in Iraq è ormai chiaro a tutti: tra Mosca e Washington – e personalmente tra Vladimir Putin e George Bush – il linguaggio si è fatto aspro; soprattutto, è andato in frantumi il velo di cortesia, ipocrisia e reticenza diplomatica che in nome di una asserita «amicizia strategica» copriva da anni la concreta e radicale divergenza di interessi strategici tra i due paesi. E questa divergenza è venuta (o meglio, è tornata) alla luce nel modo più crudo e inquietante. Gli ultimi capitoli di questa crisi vedono uno scontro durissimo: Washington che accusa Mosca di vendere armi agli iracheni e addirittura di aiutarli a usarle in queste ore (cioè in pratica di combattere contro gli americani); Mosca che nega, accusando al contrario gli occidentali di aver fornito analoghi equipaggiamenti a Baghdad (in effetti, le «armi» sotto accusa si trovano in libera vendita praticamente ovunque, paesi arabi compresi, per pochi soldi). Washington che accusa Mosca di fornire tecnologia nucleare all’Iran, Mosca che ritorce l’accusa sulle compagnie europee. E, sullo slancio, la Russia apre un fuoco di sbarramento furioso contro la «guerra illegale» scatenata dagli ex amici: uno sbarramento non solo di parole, ma anche di atti, per impedire che le Nazioni unite – o anche solo gruppi importanti di nazioni, come l’Unione europea – finiscano prima o poi per riconoscere legittimità all’invasione dell’Iraq.
Non è solo un fatto formale. Come ripete crudamente in queste ore il ministro degli esteri Ivanov, «sono in gioco le basi del futuro ordine mondiale». Mosca ha firmato con il governo iracheno importanti contratti (congelati finché durava l’embargo) per lo sfruttamento dei nuovi giacimenti petroliferi più importanti: è chiaro che un’amministrazione costruita a Baghdad dagli americani non onorerà mai questi contratti – i russi hanno ormai capito che la logica con cui si muove la Casa bianca prescinde completamente dalla correttezza formale – e quindi Putin mira oggi a impedire che una tale amministrazione possa essere mai riconosciuta da qualcuno, a guerra finita, come «legittima». «Aggressione» e «occupazione» sono gli unici termini con cui gli organismi internazionali devono definire il caso iracheno, perché i russi possano sperare di ottenere qualcosa dai tribunali.
Ma non è nemmeno (non soltanto) una questione di soldi. La determinazione guerresca mostrata dagli Usa ha letteralmente terrorizzato il Cremlino, che ora teme seriamente le mosse successive: un attacco all’Iran, o alla Siria, una escalation militare in Corea – cioè ai confini stessi della Russia. O persino un’aggressività diretta, nel Caucaso o in Asia centrale. A Mosca non si dimentica che la dottrina militare americana continua a considerare la Russia (e ancor più la Cina) come un nemico potenziale, e i fatti degli ultimi mesi mostrano drammaticamente come queste «dottrine», nella testa dei falchi Usa al potere, non siano per nulla accademiche. Se oggi il 75% dei russi considerano gli Usa «la maggior minaccia alla pace mondiale», i loro leader chiaramente condividono quest’idea e, non potendo più contare sulla propria potenza militare per tenere a bada la minaccia (resta una certa deterrenza nucleare ma, a parte questa, sul piano convenzionale non c’è partita possibile) sono spinti ad alzare la voce il più possibile, cercando al tempo stesso nuovi alleati e un pieno conforto delle istituzioni internazionali.
Ma non è detto che funzioni.