Negli anni ho recensito molti libri, ma questo di Maurizio Zipponi (Ci siamo!, Mursia, pp. 115, L. . 15.000) mi è sembrato un libro speciale. Non da leggere per commentare e magari recensire, ma da leggere per fare. Ripeto non da leggere per saperne di più, ma perché il saperne serve a fare di più, ad agire, ed è conseguente che questo libro sui lavoratori (che dicono “Ci siamo!”) sia scandito non per capitoli, ma per “assemblee”: n.1, n.2, n.3, etc.
Maurizio Zipponi, che fa il sindacalista da quando aveva vent’anni, prende di petto l’ideologia dominante secondo la quale il lavoratore, operaio o impiegato, appartiene a “una specie in via di estinzione”. In perfetta consonanza con l’economista Giorgio Lunghini, il sindacalista Maurizio Zipponi afferma che i cambiamenti, anche profondi, sono propri del capitalismo, ma che il lavoro e i lavoratori restano e per questo “il movimento dei lavoratori ha bisogno di un progetto nuovo”. “Sento un vuoto attorno al mondo del lavoro, avverto la necessità di intellettuali – questo è quel Zipponi scrive e lamenta – che leggano la realtà per quella che è, senza cercare di manipolarla per asservirla a interessi e poteri, o distorcerla semplicemente per avvalorare tesi personali”. Chi ha orecchie intenda.
Zipponi ci raccomanda soprattutto di vedere le cose come stanno e, di conseguenza, il suo libro non è conservatore, è realista, e spinge la nozione di lavoro oltre i limiti dell’economicismo nel quale può anche essere aritmeticamente concertato: il lavoratore – ci dice – è una persona, che non può essere tacitato solo con “il foraggio”, il salario di sussistenza, che pure esso, storicamente, cambia.
Non è conservatore e infatti scrive: “Non è vittoria impedire a un’azienda di rinnovarsi per operare in un mercato che cambia. Si vince quando l’azienda si trasforma riconoscendo i diritti e le condizioni di chi vi lavora”. E’ realista quando afferma: “Il mondo del lavoro è composto da due soggetti, con eguale diritto di cittadinanza: le imprese e i lavoratori”. L’impresa, che molti di noi esorcizzano, è l’altro soggetto essenziale della organizzazione del lavoro e della produzione: mi sembra difficile fare a meno dell’homo faber e di una sua forma di organizzazione.
Spezza i confini dell’economicismo (che finisce con l’imprigionare anche suoi dichiarati e sinceri avversari come il mio compagno e amico Marco Revelli) quando scrive di tempo di vita e di tempo di lavoro, di nuovo valore del lavoro e ricorda la grande e perduta conquista delle 150 ore citando la famosa frase, “I lavoratori hanno diritto ad avere una cultura generale, anche se poi dovessero utilizzarla per suonare il violino”. Questa straordinaria conquista l’abbiamo dimenticata, i più giovani non sanno neppure che (e come) fu possibile realizzarla: è uscita dal nostro attuale senso comune. Così come non abbiamo riflettuto sul fatto che questa conquista di “liberazione del lavoro”, fu possibile in un momento di forte coscienza del valore del lavoro e attraverso uno scontro di classe di grande acutezza.
Maurizio Zipponi, in queste sue assemblee, osserva e ci dà insegnamenti. Per esempio il valore della memoria: alla Magneti Marelli di Corbetta è la memoria di una delegata che dà ai giovani operai in formazione le nozioni necessarie ad aprire il conflitto. E a leggere e rileggere i testi di queste sei assemblee emergono molte verità sulla Confindustria (anche lei – scrive Zipponi – è in crisi di rappresentatività), il sindacato, la sinistra, verità che spesso ci rifiutiamo di vedere, obnubilati dalla presente cultura che di fronte al capitalismo presente ci divide tra adesione più o meno concertata e demonizzazione e ci fa tutti subalterni. Zipponi, lo ripeto, è tutto il contrario di un conservatore di sinistra, nostalgico dei bei tempi andati e magari del fordismo, ma si rifiuta di accettare la vulgata secondo la quale con la fine del fordismo, non c’è più centralità del lavoro, lo sfruttamento è indecifrabile, o, forse, non c’è più. Zipponi, facendo il suo mestiere di sindacalista, guarda, cerca, trova i punti di conflitto e i sentieri di riaggregazione dei lavoratori. E non risparmia autocritiche al sindacato e alla sinistra (“I lavoratori vivono i sindacalisti come parte di un ceto politico. Un po’ come succede tra imprenditori e la struttura di Confindustria. Ma questo non consola, anzi”).
E la critica della sinistra non è meno aspra: “Come è possibile che la sinsitra italiana, tutta presa dall’euforia americana, abbia dimenticato che le sue radici stanno nel mondo del lavoro? Come è possibile che alla base della sua sconfitta sta l’incapacità di interpretare il cambiamento, di riconoscere e intercettare i nuovi soggetti, di sentire i reali bisogni?”. Non si tratta di negare il cambiamento, ma di capire e agire. Oggi in molti diciamo che il lavoro non c’è più perché non vediamo al di là del nostro vecchio naso. Qualcosa di analogo, ricordo, ci fu negli anni Cinquanta, dopo la sconfitta alla Fiat in molti pensarono che la classe operaia era scomparsa insieme con l’operaio professionale, quello che andava in fabbrica con il “baracchino”. Allora avemmo la forza di osservare, cambiare e fare. Oggi la sfida forse è più ardua e non c’è più il fervore politico e intellettuale di allora, ma la storia continua a fondarsi sul lavoro. E questo pamphlet di Maurizio Zipponi vale più di molti tomi di colta sociologia.