Le paci «irrisolte» dal Kosovo alla Bosnia

Non è che l’inizio. E «i colloqui sullo status del Kosovo prenderanno il via all’inizio del 2006». Questi in sintesi i risultati della prima missione di consultazioni di Martti Ahtisaari, inviato speciale dell’Onu sullo status finale della provincia ancora formalmente serba e che la maggioranza albanese vuole indipendente. Il `mediatore’, che in realtà è un forte sostenitore dell’indipendenza kosovara, adesso dovrà continuare a sentire, prima nell’area balcanica poi, la prossima settimana, a Mosca, che vento tira a est su questa crisi. Sarà in Albania a Tirana, dove ora è tornato al potere Sali Berisha, e dove tutte le istituzioni, dal parlamento al governo fino alla presidenza della repubblica, hanno in questi giorni votato ordini del giorno e fatto appelli per l’indipendenza dei kosovaro-albanesi di Pristina. Un minimo di accortezza diplomatica, la carota formale spesso raccomandata dall’Occidente, non avrebbe guastato, visto l’evidente conflitto d’interessi grande-albanese che nell’area sembra sempre più consolidarsi e non senza ulteriori pericoli. Ma per capire davvero che cosa l’Occidente vuole, non è indifferente seguire la scia del `mediatore’. Ahtisaari sarà nei prossimi giorni a Skopje per incontrare i leader macedoni e quelli della forte minoranza albanese che vede nel nord della Macedonia, a Tetovo, la culla ideologica e organizzativa dell’irredentismo skipetaro che ancora vuole la Grande Albania nei Balcani. E arriverà anche a Podgorica, dove si prepara il prossimo referendum per la secessione da Belgrado; è chiaro che la leadership del Montenegro – dove è premier quel Milo Djukanovic incriminato all’inizio del 2005 per mafia e contrabbando in Italia – veda naturalmente di buon occhio l’indipendenza di Pristina e l’ulteriore indebolimento del potere serbo in funzione della propria indipendenza.

«Sfoglieremo la margherita»

Sembra che, col fragore delle bombe umanitarie della Nato qui sia rimasta l’eco ricattatoria delle parole di minaccia di Madeleine Albright a Milosevic: «Sfoglieremo tutta la margherita», alludendo alla possibilità di una secessione dietro l’altra dalla Serbia se non avesse accettato il piano capestro di Rambouillet nel febbraio 1999, a un mese dallo scatenamento degli F-16. Sono passati sei anni, ma il ricatto resta e le cancellerie occidentali, che pure non sopportano più il corrotto Djukanovic, sembrano disposte ancora a `sfogliare la margherita’, vale a dire a giocare col fuoco. E lo stesso discorso vale anche per i serbi di Bosnia che all’improvviso si vedono aperte perfino le porte dell’Europa.

La Bosnia Erzegovina non torna a caso. La settimana appena trascorsa era quella del decennale della pace di carta di Dayton e deve essere stata considerata la più memorabile per inviare nei Balcani il negoziatore speciale dell’Onu Ahtisaaari per consultazioni sulla pace di Kumanovo del giugno 1999 che pose fine ai bombardamenti della Nato, raid che imperversarono per 78 giorni su tutto il territorio ex jugoslavo con «effetti collaterali» sanguinosi: 1.800 le vittime civili, migliaia i feriti, distrutte tutte le infrastrutture e le realtà produttive, ma anche ospedali e scuole. (Solo la miopia di Gianni Riotta – v. l’editoriale del Corriere della Sera del 16 novembre – può definire quei bombardamenti «raid aerei Nato in difesa degli albanesi»).

Kosovo senza più serbi

In quell’accordo le cancellerie occidentali sottoscrivevano, poi anche in sede di Consiglio di sicurezza Onu, l’«intangibilità dell’integrità territoriale» della Serbia-Montengero erede legale della mini-Jugoslavia. Ora le stesse cancellerie, nel pieno disprezzo degli impegni sottoscritti, puntano all’«inevitabile» indipendenza del Kosovo. Tacendo sull’inferno dei serbi nel Kosovo sotto occupazione Nato e amministrazione Unmik, un silenzio e un buio mediatico durato sei anni e rotto solo dai massacri antiserbi del marzo 2004.

Che cosa è accaduto a partire dall’ingresso delle truppe Nato dal giugno-luglio 1999? Che sono stati cacciati più di 200.000 serbi, rom e altre minoranze, che 150 monasteri ortodossi sono stati incendiati e rasi al suolo, che più di 1.300 serbi e rom sono stati uccisi (l’ultima strage è di otto giorni fa, a Strepce con una bomba nel mercato), altrettanti sono i desaparecidos e le uccisioni di albanesi moderati. Certo che senza serbi, l’indipendenza è inevitabile. Ma c’è un silenzio nuovissimo e forse peggiore delle leadeship occidentali, che riguarda la profonda interdipendenza tra le «paci» irrisolte.

Da una parte il disastro della Bosnia Erzegovina con accordi inapplicati dopo dieci anni, che la vedono essere niente di più di un protettorato militare, con 4 milioni di abitanti che hanno 14 livelli di governo, dove è rientrata meno della metà dei due milioni di profughi di tutte le etnie, dove il potente Protettore, l’Alto rappresentante Paddy Ashdown (che nessuno ha mai democraticamente eletto) ha destituito in questi anni ogni governo o rappresentante delle istituzioni pur eletto che non corrispondesse alla visione occidentale. E alla fine una Bosnia Erzegovina dove, nonostante questa «protezione» sono al governo le tre mafie nazionaliste che hanno voluto e alimentato la guerra.

Gli Usa ripensano alla Bosnia

Così in questi giorni gli Stati uniti sono corsi ai ripari. Tutta la presidenza tripartita bosniaca è stata convocata a Washington da Condoleezza Rice, ufficialmente per l’anniversario di Dayton La convocazione non era però rituale. Lì sarebbe stato raggiunto un accordo per istituzioni comuni. Un accordo smentito però dalle contrapposizioni e i nervosismi emersi anche in quella sede che fanno intravedere ben altra realtà: i croati puntano ancora a una entità croata in Erzegovina collegata a Zagabria, la leadership musulmana a Sarajevo sempre più in difficoltà e l’opinione pubblica dell’altra entità, quella della Repubblica Srpska, che pensa a una unificazione con la Serbia. Elemento quest’ultimo che vede l’attenzione dei settori più radicali ed estremisti a Belgrado e che sarà difficile da controbattere se alla fine la Serbia si troverà di fronte a una comunità internazionale che riconosce l’indipendenza monoetnica del Kosovo.

Comunque sia per la Bosnia resta fermo il principio di una soluzione che salvaguardi le tre etnie e confessioni nelle istituzioni fin qui acquisite, per una integrazione unitaria addirittura nella Ue – forse nel 2014. Fermo restando che la volontà Usa, espressa dal vertice con Condoleezza Rice, è quella che «la Bosnia deve riunificarsi ed essere una» insistendo sulla rotazione etnica di tutte le cariche elettive. Come prevedeva Dayton e, viene fatto di dire, com’era nella Federazione jugoslava. Strano flash back «unitario» quello americano: già che ci siamo perché non riunifichiamo la Jugoslavia che, con le milizie nazionaliste, l’Occidente ha contribuito a devastare?

Invece per il Kosovo, l’Occidente si prepara ad avallare una indipendenza kosovaro-albanese frutto di una contropulizia etnica gestita da milizie armate ben conosciute – ex Uck, ora Ana o Kia, sempre «esercito d’indipendenza del Kosovo» – , sopportate e supportate dalle stesse forze militari della Nato cui del resto l’ex Uck fece da fanteria nella guerra. Milizie che dilagarono dopo il 1999 dal sud del Kosovo – verso Macedonia e Serbia del sud (Presevo) – quel sud del Kosovo occupato non solo dalla Nato, ma anche presso Urosevac da Camp Bondsteel, la più grande base Usa d’Europa (non prevista in alcun «accordo di pace»), quella dove Gil Robles, rappresentante dei diritti umani del Consiglio europeo denuncia oggi di avere visto una nuova Guantanamo.

Le milizie inazione allora sono le stesse che in questi giorni presidiano con posti di blocco la Drenica, cuore delle azioni armate sei anni fa del «premier» Ramush Haradinaj (incriminato all’Aja per stragi contro i serbi, ma libero di far politica), le stesse che minacciano di morte la delegazione ufficiale kosovaro-albanese «se tradirà» E che annunciano una tregua, visto che hanno incontrato `in segreto’ addirittura i comandanti della Kfor-Nato. Mentre il leader Ibrahim Rugova sta di fatto morendo.

Così il `mediatore’ Ahtisaari, prima a Pristina ha recepito i proclami indipendentisti dei leader locali sordi però agli «standard di democrazia e rispetto delle minoranze»; incontrando anche i pochi serbi rimasti in Kosovo «pronti a lasciare la regione» di fronte all’indipendenza. Poi a Belgrado è andato a sentire il presidente Boris Tadic e il premier Vojslav Kostunica, che guideranno la delegazione serba ai colloqui previsti per l’inizio del 2006. Presidente e premier erano forti del voto quasi unanime del parlamento serbo contro l’indipendenza e per l’impegno a trattare solo su «più autonomia». E Kostunica ha avvertito Ahtisaari che Belgrado considererebbe l’eventuale riconoscimento di un Kosovo indipendente «nullo e illegittimo». Il presidente Tadic ha abbozzato una proposta di «cantonalizzazione»: una divisione amministrativa del Kosovo in una entità albanese e in un’altra serba, quella che più comprenda la Metohja, la terra della chiesa e dei monasteri ortodossi, ma nel rispetto dell’integrità della provincia e della sua appartenenza alla Serbia. E’ una chiara apertura, respinta dall’Occidente e da Pristina.

Il gioco del Tribunale dell’Aja

C’è un ultimo condizionamento occidentale verso Belgrado, quello del Tribunale dell’Aja che insiste sull’arresto dei due criminali di guerra, Karadzic e Mladic. Ma è ormai spuntato anche se da tutti auspicato. Sia perché l’Unione europea mostra di non usarlo più, visto che ha già concesso un timido pre-accordo di adesione alla Serbia-Montenegro, sia perché risulterebbe a dir poco diseguale, visto il voltafaccia del procuratore Carla Del Ponte sul consenso dato all’ingresso della Croazia nella Ue anche di fronte alla non-collaborazione di Zagabria per l’arresto dei criminali di guerra croati, a partire dal generale Ante Gotovina. Ma soprattutto perché la nuova leadership serba non ha esitato ad arrestare e processare molti criminali di guerra serbi, e dichiara di non sapere e potere arrestare Mladic e Karadzic. Comunque in questi giorni è arrivato l’annuncio «puntuale», anche stavolta, del Tribunale pronto a stralciare il dossier Kosovo per condannare subito Milosevic. E far pesare così la sentenza sulla trattativa in corso. Peccato che sulle stragi dei raid Nato tra la popolazione civile jugoslava e su quelli dell’Uck, Del Ponte si sia mostrata assai poco puntuale. Il Kosovo è nudo. E quella pace è amara.