Le ombre del liberalismo alla luce della storia

“CONTROSTORIA DEL LIBERALISMO”
Editore Laterza

(Da Critica marxista, n. 4 Luglio-Agosto 2005)

LE OMBRE DEL LIBERALISMO ALLA LUCE DELLA STORIA

Contro le semplificazioni, contro le astratte agiografie, contro i luoghi comuni di ciò che superficialmente si ritiene «noto», Domenico Losurdo non propone solo una tesi «contro», bensì lavora «a favore» della piena comprensione della storia dell’Occidente.

«Ciò che è noto, proprio perché è noto, non è conosciuto. Nel processo della conoscenza, il modo comune di ingannare sé e gli altri è di presupporre qualcosa come noto e di accettarlo come tale». Questa massima hegeliana, fatta propria da Losurdo nella sua ultima fatica per i tipi della Laterza (1), sintetizza perfettamente l’intendimento dell’Autore, ribadito anche nella Prefazione: malgrado il titolo del libro, forse provocatorio, e mediaticamente efficace, Losurdo non intende riscrivere la storia del liberalismo e quindi dell’Occidente, bensì «integrarla» con aspetti scomodi, poco edificanti, sovente tragici, che troppo spesso sono stati omessi, tranquillamente rimossi, con il solo risultato di produrre un’agiografia che elimina le possibilità di critica e di autocritica. Ovvero, paradossalmente, tutto il contrario di ciò che, a livello teoretico, viene ritenuta l’«essenza» del pensiero liberale.
Proprio a proposito dell’essenza del liberalismo, Losurdo si mostra pungente fin dall’inizio, in un primo capitolo che, a partire dal titolo (Che cosa è il liberalismo), smonta luoghi comuni e dogmi ritenuti noti e indiscutibili. Utilizzando, non senza ironia, il metodo escogitato da un grande liberale del Novecento: Karl Popper. Questi, infatti, criticando il metodo «essenzialista», spiegava come esso leggesse una definizione (per esempio, «il liberalismo è la teoria che afferma la libertà dell’individuo»), «normalmente», da sinistra a destra. Questo metodo, diceva il grande epistemologo austriaco, presuppone di conoscere correttamente una questione affidandosi a una definizione che, semplicisticamente, ritiene di cogliere l’essenza dell’oggetto studiato («il liberalismo è…»), mentre, obietta Popper, il metodo veramente scientifico è quello che legge una definizione «al contrario», «da destra a sinistra». Quindi, nel nostro esempio succitato, sarebbe più produttivo studiare cosa si intende per «libertà dell’individuo», prima di arrivare alla risposta o definizione che si tratta del «liberalismo» (2).
Ora, se in sede epistemologica o scientifica un assunto viene messo in discussione attraverso le prove e gli errori, quindi attraverso gli esperimenti concreti volti a confermare (o, nel caso di Popper, falsificare) una definizione, per cui basta trovare anche un solo elemento che contrasti con la definizione stessa per metterla in discussione; è evidente che di fronte a una teoria politico-sociale (quale è il liberalismo, appunto), il banco di prova non può essere dato da un esperimento in laboratorio.
Losurdo sceglie allora quello che Popper chiamerebbe un banco di prova «nominalista», cioè di confrontare gli assunti canonici del liberalismo con la storia dei rapporti sociali concreti e dei conflitti all’interno delle società liberali e fra queste ultime e i popoli (e le razze) sfruttati e colonizzati. Da questo primo «esperimento» risulta evidente come la teoria liberale classica, a noi tutti «nota», sia stata sonoramente smentita nella pratica, attraverso «clausole di esclusione» che hanno visto derubricati dalla categoria di «individuo» (quell’individuo di cui il pensiero liberale teorizza la libertà) i pellerossa americani, gli africani deportati, le classi sociali inferiori, le donne, gli indios australiani ecc.
Ma Losurdo non si limita a questo e compie un «esperimento» ancora più ardito ed efficace: mette coscientemente da parte le affermazioni classiche e astratte della teoria liberale (quelle più o meno teorizzate da tutti i grandi autori che a essa fanno capo, e che troviamo riportate acriticamente nella quasi totalità dei manuali di storia del pensiero politico), e va alla ricerca, nelle medesime grandi opere degli stessi celebri autori liberali, di quelle affermazioni che contrastano con i nobili e grandi principi pur da essi enunciati. Per cui, alla fine, Losurdo dimostra come non soltanto le affermazioni dei grandi pensatori liberali siano contrarie alla pratica effettivamente realizzata dai governi che a essi si ispiravano, ma persino contraddittorie rispetto al loro ragionamento interno, ai princìpi pur enunciati e che unici sono citati dalla storia (agiografica) del liberalismo.

L’ESSENZA DEL LIBERALISMO

In questo modo, attraverso una ricostruzione puntuale e avvincente, sorretta da una logica stringente, Losurdo riesce a dimostrare, padroneggiando la storia e il pensiero degli ultimi quattro secoli (fino al a 1914, termine scelto dall’autore per la fine del «liberalismo classico», oggetto del suo studio), come al pensiero e alla pratica liberale non sono stati alieni veri e propri genocidi, stermini di razze e civiltà ritenute inferiori, sfruttamento selvaggio di forza lavoro umana, campi di concentramento (Losurdo ricorda le tragedie delle work houses in Gran Bretagna, ma anche i campi in cui furono relegati i pellerossa, o i cittadini di origine tedesca durante e dopo la prima guerra mondiale negli Stati Uniti, spesso con dovizia di particolari e riferimenti difficilmente reperibili nella maggior parte dei manuali di storia. E in quest’ultimo caso è riscontrabile un altro paradosso, perché l’autore cita ampiamente affermati storici americani e inglesi).
Tutto questo, secondo alcuni, non inficia il senso e la grandezza della teoria liberale nella sua essenza. Ma anche qui il metodo di Losurdo si rivela implacabile: infatti chi può decidere quale è l’essenza vera della teoria liberale? Già, perché è vero che in Locke, Tocqueville, Stuart Mill e altri (sia detto en passant che l’Autore riporta anche le frasi di grandi liberali troppo spesso dimenticati, dando un contributo alla storia del liberalismo, a prescindere dai rilievi critici), troviamo affermata la libertà dell’individuo, la limitazione dei poteri del governo e tanti altri aspetti che giustamente hanno reso grande il liberalismo. Però, leggendo per esempio Locke, si può anche trovare scritto che «ogni uomo libero della Carolina deve avere assoluto potere e autorità sui suoi schiavi negri qualunque sia la loro opinione e religione» (p. 9); oppure si può leggere Hutcheson, il grande filosofo moralista, maestro di Adam Smith, il quale «sottolinea che, soprattutto quando si ha a che fare coi “livelli più umili” della società, la schiavitù può essere un’utile punizione: essa dev’essere il castigo normale per quei vagabondi fannulloni che, anche dopo essere stati giustamente ammoniti e sottoposti a servitù temporanea, non riescono a mantenere se stessi e le proprie famiglie con un lavoro utile» (pp. 10-11).
Oppure ancora John Stuart Mill, forse l’esponente del liberalismo classico più «di sinistra», che, con l’occhio rivolto alle colonie del grande impero inglese, afferma come «ogni mezzo è lecito per chi si assume il compito di educare le “tribù selvagge”; la “schiavitù” è talvolta un passaggio obbligato per condurle al lavoro e renderle utili alla civiltà e al progresso» (cap. 7, § 3). Ogni riferimento a fatti e situazioni della storia contemporanea, è evidentemente utile e significativo.
Gli esempi portati da Losurdo sono molteplici e coprono efficacemente tutto l’ampio periodo storico preso in esame. Ovviamente è impossibile, e sarebbe sterile, riportarli tutti o anche solo una buona parte. Ma quello che conta è la domanda che si pone l’autore: sono liberali questi autori di cui abbiamo letto le affermazioni, alla luce della definizione che, astrattamente e acriticamente, si usa dare esclusivamente del liberalismo?
In questo lavoro, l’Autore dimostra chiaramente come la parziale e agiografica definizione di liberalismo non regga non soltanto alla prova della storia, ma neppure di un confronto serrato e completo con le opere teoriche degli stessi autori liberali: questi ultimi infatti, anche volendo uscire dal terreno della storia per concentrarsi su quello della teoria pura, hanno dichiaratamente (cioè all’interno dei loro scritti, per chi avesse la pazienza di leggerseli per intero) e consapevolmente circoscritto i grandi princìpi della loro teoria allo «spazio sacro» costituito di volta in volta dai bianchi, dai maschi, dai benestanti, ecc., ispirandosi molto spesso alla Bibbia, in cui era proprio contenuta tale distinzione: lo «spazio sacro» era quello dato dalle terre in cui la religione ufficiale era il cristianesimo (in questo spazio la guerra era amorale, gli uomini dovevano essere fratelli in quanti figli di Dio ecc.); mentre lo «spazio profano» era costituito dalle terre in cui vigevano le religioni altre, quelle degli infedeli, di coloro che evidentemente non erano abbastanza figli di Dio (o non del Dio della Bibbia) e verso i quali quindi era lecita la guerra e ogni tipo di sopraffazione violenta.
Come in sant’Agostino, san Tommaso, Erasmo da Rotterdam e altri autori cristiani si trova espressamente teorizzata la guerra e la violenza anche brutale contro gli infedeli (tanto che il cristianesimo non può passare alla storia soltanto come la civiltà della fratellanza, del dialogo, della tolleranza), così negli autori liberali si trovano le affermazioni che abbiamo letto e anche altre ben più crude e abominevoli, che Losurdo non manca di riportare.

SCONTRO DI CIVILTÀ

E’ facile intuire la grande utilità, proprio oggi che si rischia lo «scontro di civiltà», di questa rilettura critica del liberalismo e della società occidentale che alla sua fonte si abbevera.
Invece l’Occidente continua a non mettersi in discussione e a riservarsi in ogni campo quelli che sono veri e propri «privilegi della potenza»: in nome di un «liberalismo» puro tanto quanto astratto, teorico tanto quanto poco applicato nella concretezza dei rapporti sociali reali (fra individui, fra Stati, fra civiltà: «l’uomo libero è un’astrazione», avrebbe finalmente compreso un liberale della seconda metà del Novecento!) (3), esso costringe la quasi totalità del mondo a rispettare la regola del «fate ciò che dico ma non ciò che faccio» (4), che per riprendere Losurdo potrebbe equivalere a «seguite ciò che è scritto nei nostri manuali agiografici sul liberalismo, non ciò che in nome dello stesso abbiamo fatto contro di voi nel corso di secoli».
E’ bene sottolineare, per completezza, ciò che molti liberali nostrani per primi si guarderanno bene dall’ammettere: Losurdo in questa summa dei suoi studi sul liberalismo fa ammissioni che non si possono leggere in alcun altro dei suoi lavori precedenti. Basti prendere il capitolo conclusivo, da cui, fra le tante, scegliamo questa frase che l’Autore porta a bilancio del suo lavoro: «Dando prova di una straordinaria duttilità, esso [il liberalismo] ha cercato costantemente di rispondere e adattarsi alle sfide del tempo. È vero, ben lungi dall’essere spontanea e indolore, tale trasformazione è stata in larga parte imposta dall’esterno, ad opera di movimenti politici e sociali coi quali il liberalismo si è ripetutamente e duramente scontrato. Ma per l’appunto in ciò risiede la duttilità. Il liberalismo ha saputo apprendere dal suo antagonista (la tradizione di pensiero che, prendendo le mosse dal «radicalismo» e passando attraverso Marx, sfocia nelle rivoluzioni che in modi diversi a lui si sono richiamati) ben più di quanto il suo antagonista abbia saputo apprendere dal liberalismo» (p. 276). Il libro di Losurdo si basa in definitiva sul presupposto che il liberalismo, come ogni cosa, ha il suo «lato oscuro». Portarlo alla luce, come egli fa con le ombre della tradizione liberale, è un merito primario di questo libro, nonché un servizio reso innanzitutto alla conoscenza.
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1) Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, Roma-Bari, Laterza, 2005 (la massima di Hegel è citata a p. 27). Le pagine del libro cui si farà riferimento verranno riportate fra parentesi di¬
rettamente nel testo.
2) K. Popper, The Open Society and Its Enemies, 2 w., London, Routledge, 1973, v. II, p. 14.
3) K. Minogue, The Liberal Mind, London, Methuen, 1963, p. 174.
4) S. Bessis, L’Occident et les autres. Histoire d’une supréma¬tie, Paris, La Découverte, II-8.