“Le nuove sfide della difesa italiana”

Intervento dell’onorevole Marco Minniti, responsabile Sicurezza e Difesa dei Ds, al convegno “Le nuove sfide della difesa italiana” del 7 novembre 2005

Non si può parlare delle nuove sfide della difesa italiana se non le si colloca dentro uno scenario che in questi anni ha subìto fortissime e rapide trasformazioni. Due date fanno da spartiacque fondamentale. L’89 con la caduta del muro di Berlino e l’11 settembre con l’attacco terroristico alle Torri gemelle. La prima rappresenta la fine di un equilibrio bipolare durato più di mezzo secolo e la nascita di un mondo che ha proposto insieme nuove opportunità, nuovi spazi democratici ma anche nuove tensioni e instabilità in diverse aree del mondo. Con la sfida dell’11 settembre la minaccia terroristica ha cambiato nel profondo quello che era stato un paradigma fondamentale per le politiche di sicurezza: la separazione tra sicurezza interna ed esterna. Nello scenario strategico seguito a quel drammatico evento, il confine fra sicurezza e difesa è diventato più labile, anche in termini geografici. La linea di frattura fra l’area strategicamente stabile e quella ancora instabile corre fra l’emisfero settentrionale e quello meridionale con alcuni cunei, i Balcani verso nord e l’India verso il sud. La dimensione della sicurezza di un paese sempre più si gioca fuori dai confini nazionali.

Tutto questo ha fatto assumere al tema della difesa caratteristiche del tutto inedite. Dopo l’11 settembre negli Stati Uniti, l’amministrazione Bush vara il “documento sulla sicurezza nazionale”. Il titolo è rivelatore e ne anticipa i contenuti: la sicurezza nazionale si identifica con la sicurezza del pianeta. Per poterla garantire si afferma in linea di principio la possibilità, la necessità, della guerra preventiva, del “first strike”. In sostanza si afferma: pur di difendere i miei interessi sono pronto a colpire dovunque; dovunque sento minacciati i miei interessi nazionali. C’è in questa impostazione una critica di fondo al multilatelarismo ritenuto paralizzante; una critica che viene da una profonda rivisitazione dello stesso intervento in Kossovo. La NATO dopo l’11 settembre attiva l’art. 5 del Trattato ma gli USA decidono “stranamente” di non avvalersene. Di andare in Afghanistan da soli pur dentro un ampio schieramento che sostiene quell’intervento: non è la coalizione che definisce la missione ma è la missione che definisce la coalizione. Nasce così la formula dei “willings”.

Conosciamo bene le conseguenze di una siffatta impostazione. In ogni caso oggi, dopo tre anni, si può trarre un bilancio e si può dire che la strada delle scelte unilaterali non ha ridotto la temerarietà della sfida terroristica e non ha prodotto un assetto più stabile del pianeta. L’idea classica della guerra non è in grado di affrontare la sfida del terrorismo moderno. La lotta a questo terrorismo è per definizione multilaterale; nel senso che ha bisogno di condivisione di informazioni, di valutazioni comuni, di forte flessibilità e di fortissima cooperazione.

La risposta ampia e convinta con cui la comunità internazionale si era trovata a fianco degli Stati Uniti dopo l’attacco alle Torri gemelle, che ha avuto concreta applicazione nell’azione militare in Afghanistan, è stata purtroppo e colpevolmente dissipata. Si è reagito sulla base di una impostazione teorica che risentiva anche di una profonda diffidenza nei confronti dell’Europa. Diffidenza in parte anche giustificata. L’Europa ha reagito alla sfida del terrorismo internazionale con lentezza, rivelando una diversa sensibilità. Non è un caso che il documento Solana giunge nel dicembre 2003 cioè due anni dopo l’attentato alle Torri. Questo ritardo è conseguenza delle più complesse procedure decisionali dell’Unione Europea ma forse anche il segno di una sottovalutazione del problema. Nel dicembre 2003, viene approvato a Bruxelles il documento sulla sicurezza europea, dal titolo “Una Europa sicura in un mondo migliore”. La differenza tra i titoli dei due documenti, quello statunitense e quello europeo rende icasticamente, aldilà dei punti di contatto sulla comune valutazione del quadro delle nuove minacce, la differenza tra due impostazioni. Tra due diverse riposte.

L’intervento in Iraq ha rappresentato un punto di rottura, forse il più acuto nel secondo dopo guerra. Il contraccolpo nelle relazioni tra Europa e Stati Uniti è stato molto pesante. La stessa Europa è risultata alla fine profondamente divisa. Francia e Gran Bretagna, entrambe co-fondatrici della Politica di Difesa e Sicurezza Comune, ad esempio si sono ritrovate in campi politicamente opposti. All’interno dell’EU gli stessi normali processi decisionali su questi temi sono stati di fatto sostituiti da decisioni prese da gruppi di Stati “pro” o “anti” invasione. Dietro la crisi del rapporto tra Europa e gli Stati Uniti, che è stata una crisi vera, vera e forte, che oggi appare in parte meno evidente ma non risolta, rimane non sciolto un nodo di rilevanza strategica. Si comprende cioè – è questo il cuore del documento Solana – che il tema della sicurezza non può essere affrontato seriamente se non si mette in campo un progetto per un nuovo ordine mondiale che, solo, può consentire un governo politico del pianeta.

Si pone qui una questione centrale che non voglio in alcun modo eludere e cioè il tema della cosiddetta “esportazione” della democrazia. Non sottovaluto l’importanza, anche dentro una strategia di sicurezza internazionale, di promuovere la diffusione della democrazia. Comprendo anche il fascino, l’utilità, di una idea che considera l’esportazione della democrazia come, in ultima analisi, uno strumento, lo strumento per difendere le nostre democrazie. E tuttavia nonostante ogni sforzo di comprensione rimane ai miei occhi una evidente contraddizione tra l’uso della forza e la costruzione di una democrazia. Il fine non giustifica i mezzi. Mezzi non limpidi inficiano gli stessi fini. L’esperienza e la storia ci dicono che la democrazia difficilmente è stata esportata con le armi. Si diffonde, si espande, si costruisce nel tempo passo dopo passo. Il rischio è di produrre una endemica instabilità con alla fine l’angosciante paradosso di una democrazia che per affermarsi in quanto tale finisce per mangiare se stessa.

In sostanza non c’è sicurezza se essa è affidata esclusivamente alla risposta militare. Non si può, né si deve escludere in linea di principio l’uso della forza. Questa esclusione condannerebbe un paese all’insicurezza e una coalizione di governo all’impotenza. Il punto è che l’uso della forza deve essere effettivamente considerato come l’ultima ratio e si ricorre ad essa dopo che la politica e la diplomazia hanno compiuto ogni sforzo per raggiungere una soluzione pacifica dei problemi. Ed in ogni caso, sempre, non si può prescindere dai principi di legittimità e di consenso. Lo dico con la consapevolezza di chi ha fatto parte di governi che, in passaggi significativi nella vita del nostro paese, si sono assunti serie e importanti responsabilità anche sull’uso della forza. Tuttavia penso non sfugga a nessuno – sopratutto a questa platea – la rilevanza e il travaglio che una decisione di questo tipo comporta. Diciamolo con franchezza, se diamo uno sguardo al mondo, non vedo in difetto l’uso della forza, vedo se mai in difetto l’uso della politica.

Il punto vero è stabilire le regole entro le quali l’uso della forza può essere legittimo. Non c’è dubbio che un tema cosi delicato debba essere ancorato a una visione multilaterale che in qualche modo lo sottragga alla fragilità delle scelte unilaterali o peggio dell’arbitrio. Noi pensiamo, per l’oggi e per il domani, che non sia possibile un impegno delle Forze armate italiane fuori dai confini nazionali senza un mandato diretto e preciso delle Nazioni Unite e dell’UE. Quando facciamo questa affermazione riflettiamo anche sulla nostra storia e nello stesso tempo siamo consapevoli della fragilità degli strumenti dell’ONU. Certo, per quanto riguarda la riforma delle Nazioni Unite non si è raggiunto un obiettivo soddisfacente. Il bicchiere mi sembra sinceramente più mezzo vuoto che pieno. E’ tuttavia pur in presenza di tali limiti non credo sia possibile concepire un governo del pianeta al di fuori di quel consesso.

Sulla base di questi principi forti non abbiamo condiviso l’intervento in Iraq fin dal primo momento. E’ noto che non avremmo deciso l’invio di truppe nel teatro irakeno e restiamo tuttora convinti della validità di quella nostra posizione, che non inficia affatto il giudizio sui nostri soldati né fa venir meno il nostro sostegno nei loro confronti o affievolisce il ricordo e il dolore per tutti coloro che in quella o in altre missioni hanno perso la vita. Fra cinque giorni ricorre il secondo anniversario della strage di Nassiriya. Il pensiero di tutti noi va a questi caduti, ai loro familiari e a quanti gli sono stati vicini. Non intendo neppure sottovalutare il valore degli sforzi e dei risultati prodotti dal popolo irakeno: è stata eletta l’assemblea costituente, è stata approvata – anche se con zone di forte dissenso – una nuova costituzione e a dicembre verrà eletto il nuovo parlamento. Passi in avanti importanti e tuttavia la situazione irakena è lungi dall’essere stabilizzata. Ancora oggi incombe il rischio di una guerra civile e la prospettiva di una rottura dell’unità del paese non è affatto scongiurata. Oggi l’Iraq è una straordinaria questione aperta sia per quanto riguarda la sua sicurezza sia per quanto riguarda la sicurezza internazionale. Affrontiamo il tema con freddezza e senza inutile spirito polemico. Oggi anche alla luce dell’evolversi della situazione, la presenza di un contingente militare nell’attuale configurazione, non rappresenta più la soluzione del problema ma parte del problema. Del resto già 13 Paesi hanno lasciato il teatro irakeno. Di queste questioni discutono apertamente anche i vertici militari americani.

Condivido profondamente l’intervento di Piero Fassino su “La Stampa”. Per parte mia penso che il tema del futuro dell’Iraq vada affrontato proponendo un forte elemento di discontinuità nel mandato e nella composizione di una forza di sicurezza e di mantenimento della pace che accompagni la stabilizzazione per un periodo, parliamoci chiaramente, anche non breve. Questa, a mio avviso è la via necessaria per individuare una positiva “exit strategy” basata sul trasferimento effettivo e completo dei poteri alle autorità irakene, sull’assunzione di una responsabilità più forte e diretta da parte dell’ONU, dentro un quadro di impegno multilaterale che coinvolga completamente l’UE e paesi arabi moderati. Capisco le preoccupazione del Jalal Talabani.

So bene che propongo una via più difficile, che non tutto è nelle nostre mani ma oggi tuttavia possibile anche per i passi in avanti realizzati ed in ogni caso appare come ineludibile. Questo non significa abbandonare l’Iraq ma passare ad un’altra fase. Collocarne il destino in una cornice multilaterale diversa e più credibile. C’è bisogno di una forte iniziativa dell’Italia in tutte le sedi affinché si costruiscano le condizioni per un nuovo scenario di impegno per la comunità internazionale. Di una strategia più inclusiva e coinvolgente. Se non ora, quando? A dicembre ci saranno le elezione per il nuovo Parlamento irakeno, scadrà il mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU, ci sarà da rifinanziare la nostra missione. Una straordinaria finestra di opportunità ma anche di responsabilità. Vorrei ricordare che anche quando si parlava dell’Afghanistan, della possibilità di una missione dell’ONU in quel paese che avesse anche obiettivo di assorbire “Enduring Freedom”, ai più ciò appariva come improponibile. Al massimo una buona intenzione. Oggi ISAF è una missione decisiva per l’assetto dell’Afghanistan e si sta realizzando l’unificazione con “Enduring Freedom”. Un’unica missione ONU-NATO con due comandi operativi distinti. La cosa peggiore in politica estera, nella politica in generale, è quando il “realismo” diventa paralisi, quasi un alibi per l’inazione. Il 2006 sarà un’anno chiave per l’Iraq. Se non si fa nulla, se non accade nulla, continuo a pensare che non sia possibile prolungare la missione “Antica Babilonia” e che bisogna, avendo ben presente anche limiti operativi delle attività che stiamo attualmente svolgendo, riproporre il tema del rientro del nostro contingente chiedendo al Governo di predisporre un calendario certo e concordato. Lo chiediamo oggi dall’opposizione, lo predisporremo domani dal governo se saremo chiamati a questa responsabilità.

Non “un tutti a casa”, non un semplice disimpegno, ne discuteremo con gli alleati e con il governo irakeno, ma un atto forte che cambi la qualità del nostro impegno. Questo significa aiutare l’Iraq in altro modo, sviluppando le attività di addestramento delle Forze armate e di polizia irakene spostando così risorse significative nel campo della cooperazione economica e sociale. Con altrettanta chiarezza riconfermiamo per l’oggi e per il domani l’impegno italiano in tutte le missioni che si svolgono oggi sotto l’egida diretta delle Nazioni Unite. Dal Kossovo all’Afghanistan passando per Naqoura, nel sud del Libano, le Forze armate italiane stanno svolgendo un compito importante per garantire la sicurezza e la pace. Un ruolo riconosciuto anche con l’assegnazione contemporanea ad un comando italiano della missione KFOR in Kossovo e ISAF in Afghanistan. In questi anni l’Italia e le sue forze armate hanno fatto degli straordinari passi in avanti. Esse sono oggi un significativo patrimonio del Paese e come tali devono essere considerate. Non ho mai condiviso i tentativi – che qualche volta si intravedono – di mettere loro magliette politiche. Si tratta invece di considerarle come un punto di continuità positiva dentro le dinamiche di una democrazia dell’alternanza che considero una conquista da difendere e consolidare.

Sono convinto che la prossima legislatura – chiunque vinca le elezioni – debba avere, sui temi della sicurezza e della Difesa, un carattere costituente. Non può esserci tuttavia una efficace politica di sicurezza nazionale e un affidabile disegno internazionale se non si completa il progetto di difesa europea. Stiamo discutendo di questioni decisive nella vita del paese. In sostanza si tratta di proporre per il nostro paese una collocazione strategica che lo veda saldamente inserito in Europa, protagonista delle politiche di integrazione europea in questo campo e anche per questo, anzi proprio per questo, alleato serio e affidabile degli Stati Uniti. La nostra posizione si muove in sintonia con il documento Solana e ha il suo baricentro nell’idea di una forte e multilaterale integrazione dell’impegno italiano per la sicurezza.

Questo è il filo rosso che ha guidato il nostro impegno sia ieri al Governo sia oggi all’opposizione. Il processo di integrazione europea è tanto necessario quanto difficile. Ma tutto questo rappresenta un motivo in più per impegnarsi. Dobbiamo superare le difficoltà connesse con l’allargamento dell’Unione. Reagire positivamente anche di fronte a battute di arresto molto serie, segnali di una vera e propria crisi, derivanti dall’insuccesso dei referendum popolari in Francia e in Olanda. Così come dobbiamo superare la situazione di imbarazzante stallo venuta a determinarsi nei rapporti con la Turchia sulla questione di Cipro.

Il campo della Difesa è quello – dopo l’avvento della moneta unica – dove in questi anni si sono prodotti i più significativi passi in avanti e tuttavia bisogna continuare a procedere con speditezza anche attraverso cooperazioni rafforzate o strutturate. L’Italia non può restare fuori dal gruppo di testa. Questo è il rischio più grande che io vedo oggi. Non si può pensare di affrontare il tema delle preoccupazioni e dei rischi che derivano da un assetto unipolare del pianeta senza affrontare apertamente il tema di un credibile progetto di “difesa europea”. La prospettiva di pace e di sicurezza dell’intero pianeta passa anche attraverso questa scelta. Non è un tema degli altri ma il cuore di una moderna politica riformista. In concreto si tratta di sviluppare una efficace capacità militare dell’Europa.

Un progetto già articolato con l’individuazione di importanti strutture e programmi:

* la formazione di Gruppi da Combattimento EU (EU Battlegroups) quali parti delle Forze di Intervento Rapido. Dal 2007 in poi, l’Unione europea avrà la capacità di effettuare anche contemporaneamente due distinte operazioni di risposta rapida, sempre a livello di singolo battlegroup, sotto il comando diretto di appositi organismi operativi di teatro. La struttura di comando e controllo interforze italiana, il COI – Comando Operativo di vertice Interforze, è candidata ad assolvere questa funzione.

* l’istituzione dell’Agenzia Europea per la Difesa, sta sviluppando, congiuntamente al Comitato Militare EU un sistematico processo di sviluppo delle capacità militari EU sulla base di valutazioni di costo/efficacia e promuovendo l’armonizzazione sull’acquisizione dei materiali ed equipaggiamenti per la Difesa, concependo per lo scopo programmi di studio nel campo tecnologico, di ricerca e sviluppo, marketing e produzioni industriali. Dare impulso ai lavori dell’Agenzia deve diventare una priorità di governo.

* la Cellula Civile-Militare, struttura EU che amplierà le capacità di gestioni delle crisi in un quadro multi-operativo, realizzando una maggiore interconnessione fra strutture e strumenti civili e militari.

* un piano per il coordinamento del trasporto strategico aeromarittimo, “L’approccio Globale di Dispiegamento” strumento chiave in funzione strategica per il dispiegamento rapido delle forze EU.

* il coordinamento tra EU e NATO, nel rispetto della reciproca autonomia decisionale, per un impegno di una generale complementarità tra EU Battlegroups e Forza di Reazione NATO, con particolare riguardo agli standards ed alle procedure operativi.

A corollario delle strutture militari sopra descritte si pone l’iniziativa dei Ministri della Difesa di Francia, Italia, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna riguardo la creazione di una Forza europea di gendarmeria (European Gendarmerie Force – EGF), che avrà status militare e sarà utilizzabile in scenari operativi di intervento rapido a maggior rischio al fine di garantire servizi di sicurezza ed ordine pubblico.

In ambito navale un primo strumento di interoperabilità è costituito dall’Euromarfor: una forza navale non permanente, formata da Francia, Italia, Portogallo e Spagna; questo gruppo navale, dislocato principalmente nel Mediterraneo che ha già operato nel Mediterraneo orientale in coordinamento con le Forze permanenti Nato impegnate nell’operazione Active Endeavour (lotta al terrorismo). L’Unione Europea è già alla guida di operazioni multinazionali, quali l’operazione Althea, Eupm e Eumm a Sarajevo, la missione Eupol Proxima a Skopje ed Eupol Kinshasa in Congo. Questa è già oggi l’Europa della Difesa. Un buon punto di partenza. Non si tratta di pensare al progetto europeo come un progetto “antagonista” con gli USA non solo per ragioni di volontà politica ma perché sarebbe una cosa impossibile. Il problema vero è come avere una difesa europea con autonoma capacità di intervento integrata con gli assetti dell’alleanza transatlantica. Penso che abbia ancora validità il principio caro a Madleine Allbright, detto anche il principio delle tre D teso ad evitare cioè situazioni di “decoupling, duplication, discrimination”. Ma il nodo delle autonome capacità è un punto chiave.

Sono stati fatti passi importanti in avanti nell’integrazione tra EU e l’Alleanza Atlantica. Mi riferisco ad esempio agli accordi di Berlin Plus per assicurare integrazione, interoperabilità e cooperazione tra NATO e UE e alla risoluzione del problema per interfacciare i rispettivi comandi di vertice. Una Alleanza Atlantica che sta profondamente cambiando. L’allargamento ad est della NATO. Il fatto che nemici di ieri sono gli alleati di oggi, le missioni fuori area, l’assunzione dell’impegno contro il terrorismo come grande “issue” dell’Alleanza sottintendono una ridefinizione della “mission” della NATO. Il progetto di difesa europea e l’alleanza atlantica non possono essere pensate né come separate né come separabili. Tuttavia oggi si tratta di rimuovere ogni ulteriore ostacolo ed anche qualche, magari ben celata, resistenza “passiva” e di procedere speditamente alla costruzione di una Forza militare europea tenendo presente che essa è anche l’unica prospettiva realistica per superare i limiti, anche di bilancio che i singoli stati incontrano per realizzare una politica di sicurezza e difesa che abbia la possibilità di dare una risposta efficace al terrorismo e sia contemporaneamente garanzia di pace.

L’Italia dal punto di vista delle politica di bilancio ha vissuto un quadriennio pesantissimo. Mai nella storia repubblicana il rapporto tra funzione difesa e Pil era sceso sotto l’1 per cento. Il valore critico raggiunto quest’ anno dalle risorse assegnate alla funzione Difesa (0,84 del Pil) è il punto più basso di una sequenza decrescente che ha segnato il corso della intera legislatura. L’obiettivo annunciato dal Governo nel Dpef del 2002 e cioè tendere progressivamente al valore dell’ 1,5 per cento del Pil, si è dimostrato non raggiunto e oggi, appare, in tutta sincerità compromesso anche come obiettivo a medio termine. Al forte impegno chiesto alle Forze armate è corrisposta una progressiva e costante diminuzione delle risorse finanziarie, che ha portato la situazione a un punto insostenibile. Una situazione che ha preoccupato la stessa amministrazione della Difesa che già nella relazione contenuta nella Nota preliminare allo Stato di Previsione per l’anno 2003, affermava che se si fosse andati oltre quel limite si sarebbe compromessa l’efficienza operativa dello strumento militare. E’ quel limite è stato superato.

Anche la composizione della spesa risulta fortemente squilibrata e lontana da quel bilanciamento ottimale che la vorrebbe equamente ripartita tra le spese per il personale e quelle per l’esercizio e l’investimento. Per il 2006 le previsioni assegnano, il 63,16 per cento alle spese per il personale e soltanto il 36,84 per cento a quelle per gli investimenti e l’esercizio. Questo a prescindere dai tagli previsti nella Legge Finanziaria che se approvata senza modifiche dal Parlamento peggiorerebbero ulteriormente la composizione della spesa riducendo al lumicino le risorse per ammodernamento ed esercizio. Nessuna struttura moderna può a lungo reggere questa ripartizione. Negli ultimi anni dunque per la Difesa si è speso poco e alla Difesa si è chiesto molto. Anche il confronto con gli altri paesi europei conferma questo assunto tenendo conto che paesi comparabili con il nostro come la Francia o il Regno Unito investono rispettivamente l’1,72 per cento e il 2,46 per cento del Pil nella Difesa, è che si va dai 230 euro pro capite spesi dall’Italia ai 450 spesi dalla Francia ai 300 spesi dalla Germania e ai 650 spesi dalla Gran Bretagna.

Mi sembra più che mai necessario a fronte di questi dati individuare dei parametri di convergenza tra gli Stati europei ai quali ancorare le politiche nazionali di bilancio e quelle industriali. Anche questa è una sfida da vincere. Vorrei ricordare che dal 1996 al 2001 la curva del bilancio della Difesa è sempre stata in lieve ma costante crescita. Invertire la tendenza negativa di questi ultimi anni facendo risalire la curva delle risorse finanziarie da assegnare alla funzione difesa è un impegno che ci sentiamo di dover assumere. So bene che si tratta di una sfida molto delicata: la condizione economica del nostro paese, nuovi e vecchi buchi del bilancio, l’eterna alternanza delle priorità. E’ tuttavia su questo si tratta di fare una chiara e inequivocabile scelta politica.

Ed è in questo quadro che vanno affrontati i problemi dell’industria della difesa. In un paese che ha progressivamente perduto una posizione competitiva su molti terreni industriali, quello chimico-farmaceutico, informatico, delle telecomunicazioni, della meccanica, e dove le grandi concentrazioni rimaste in campo di fatto forniscono soltanto servizi, l’industria della Difesa è l’unico settore ad alta tecnologia, potenzialmente competitivo. E’ quindi una risorsa strategica per il paese prima ancora che un fornitore indispensabile di beni e servizi destinati alla sicurezza nazionale. In questi anni si sono fatti molti passi in avanti e abbiamo un industria della Difesa protagonista in molti settori di eccellenza da quello elicotteristico a quello dell’aerospazio. Anche i piani di ricerca, ammodernamento e sviluppo in materia di beni e servizi prodotti dall’industria della Difesa debbono misurarsi con profondi mutamenti di scenario. La stessa diffusione delle tecnologie duali sta favorendo la nascita di un nuovo settore industriale, caratterizzato dal forte contenuto di tecnologie avanzate.

Il programma di governo della prossima legislatura deve evidenziare la necessità di rafforzare le aree di eccellenza tecnologica e produttiva all’interno di questo settore. Già nella Legge Finanziaria in discussione al Senato vanno garantite maggiori risorse e su questo siamo già particolarmente impegnati. Ma vanno anche operate alcune correzioni di rotta. Non abbiamo condiviso, come è noto, la scelta di uscire da alcuni programmi europei, in particolare quello per il velivolo da trasporto Airbus A400M. Ci preoccupano le incertezze finanziarie che stanno condizionando fino all’ultimo l’avvio del programma italo-francese per le unità navali Fremm e le difficoltà in cui si vengono a trovare industrie la cui attività è necessaria per garantire livelli di operatività al nostro strumento militare. Valga a titolo di esempio il caso del gruppo Avio che ha visto ridursi in tre anni a un quarto le commesse per la revisione dei motori dell’aeronautica militare italiana e si trova sul punto di mettere in cassa integrazione quasi metà delle maestranze che lavorano nello stabilimento di Brindisi.

L’industria della Difesa deve essere sostenuta dalla committenza pubblica e da una politica industriale che le consenta un adeguato sviluppo in una parola si tratta di far pesare in questo campo il sistema – paese. Il perseguimento di questo obiettivo può essere reso più facile da una più stretta integrazione europea e richiederà un forte coordinamento degli strumenti della politica industriale nel campo della ricerca, della formazione, delle acquisizioni e delle esportazioni un ruolo chiave deve essere svolto dall’Agenzia Europea per la Difesa. Quanto più l’industria della Difesa sarà messa in condizione di partecipare ai programmi europei tanto potrà avere un equilibrato rapporto con l’industria statunitense. Affrontando su questo ultimo versante il tema del trasferimento delle tecnologie.

Costruire un nuovo strumento militare non è una impresa facile per nessuno. Voglio quindi innanzitutto ringraziare quanti – primi tra tutti i militari di ogni ordine e grado, i loro quadri e i vertici che in questa ardua impresa si sono impegnati, fin dalla prima e più difficile fase di questa trasformazione. Molto è stato fatto – voglio ricordarlo – per merito di questo impegno ricco di passione, sacrifici e professionalità. Anche il personale civile della Difesa ha fatto la sua parte, costretto a misurarsi con tagli consistenti di organico e con la necessità di una riqualificazione, purtroppo non adeguatamente sostenuta, per realizzare una riorganizzazione funzionale coerente con le nuove esigenze.

In Italia abbiamo avuto per lungo tempo uno strumento militare bilanciato in ogni sua componente, in grado di corrispondere alle esigenze correlate a un determinato quadro geopolitico. Basti pensare al lungo periodo della guerra fredda e dello schieramento sulla soglia di nord-est. Dall’inizio degli anni 90 ci siamo trovati di fronte a un radicale cambiamento che pone esigenze del tutto diverse, che mettono in discussione il principio di forza bilanciata. La caratteristica principale che oggi si chiede è quella della proiettabilità di pacchetti interforze su scenari operativi che possono essere molto diversi l’uno dall’altro. E’ necessario quindi uno strumento flessibile e in grado di integrarsi con le forze alleate. I parametri su cui agire riguardano quantità, qualità e capacità. L’ottimizzazione di tali parametri può essere risolta tenendo presente ancora una volta la chiave dell’integrazione europea e della interoperabilità scegliendo decisamente i settori d’eccellenza del nostro strumento militare.

Noi abbiamo avvertito per tempo queste esigenze e abbiamo fatto il passo difficile del superamento della leva obbligatoria e il passaggio al professionale. Il Governo, con il Ministro Martino, in questa legislatura ne ha accelerato il completamento. L’esercito professionale ha già dato buona prova di sé ma anche fatto emergere problemi strutturali, primo fra tutti quello di una disomogeneità nei bacini di reclutamento. Gran parte degli uomini e delle donne che scelgono di arruolarsi nelle Forze Armate provengono dal Sud del paese. E tuttavia questa parte del nostro territorio non viene ancora considerata una risorsa su cui investire nei nuovi assetti organizzativi delle Forze armate ma anzi viene spesso chiamata in causa per programmare cancellazioni di enti e strutture già esistenti. Nella definizione dei nuovi assetti organizzativi dell’amministrazione militare si deve rispondere a due questioni fondamentali. La prima: Il fianco sud del Mediterraneo è, nel contesto dei nuovi scenari geo -politici, un baricentro decisamente significativo. La seconda: Calabria, Campania, Puglia e le due isole maggiori, forniscono il 90 per cento dei volontari che prendono il posto dei soldati di leva. L’80 per cento di questi volontari sono assegnati a reparti collocati nelle regioni del centro-nord. Siamo di fronte a un vero e proprio flusso di migrazione interna che costringe i militari a una vita difficile dominata dal desiderio di poter rientrare nel luogo di origine.

Se nell’esercito di leva il trasferimento da un luogo all’altro ha avuto un significato di integrazione sociale, se per molti ragazzi del sud il viaggio per raggiungere la caserma rappresentava il primo viaggio fuori dal loro paese, oggi non è più così. Se vogliamo far svolgere al servizio prestato nelle Forze armate un ruolo di integrazione sociale dobbiamo far restare i soldati nel territorio dove li reclutiamo. Scegliere la professione militare e poterla svolgere restando nella propria realtà territoriale, ha anche un significato culturale. Può costituire un positivo modello sociale anche di fronte alla sfida culturale e di modello delle mafie. L’uomo è l’elemento centrale di ogni strumento militare e merita la massima attenzione. Ridare slancio ad un progetto riformatore significa affrontare il tema della riorganizzazione dei Corpi dello Stato, dei loro poteri, della loro efficienza a partire dal tema dei diritti della persona e degli spazi democratici da garantire a quanti, al loro interno, operano in divisa al servizio del paese.

Il passaggio all’esercito professionale, non comporta soltanto maggiori oneri per stipendi e indennità, ma soprattutto l’obbligo di investire anche nella formazione, nell’addestramento, nel miglioramento della qualità della vita in modo da dare al “cittadino-volontario-soldato” la certezza e il ruolo di un professionista inserito in una organizzazione efficiente e moderna, aperta al rapporto con la società civile. Il soldato volontario ha diritto a misure di grande attenzione sociale per la tutela della salute, a più adeguati istituti di protezione assicurativa e previdenziale, a politiche innovative per la casa di abitazione e per gli alloggi di servizio, a migliori condizioni di lavoro e di vita. A un esercito di professionisti si chiede molto dal punto di vista degli impegni, si deve garantire altrettanto anche sul terreno dei diritti. In questo quadro è ineludibile una riforma dei codici militari. Nei mesi scorsi si è cercato di dare una risposta sbagliata ad un problema giusto. I codici del ’41 vanno si cambiati ma realizzando una riforma che collochi l’Italia dentro un solido orizzonte europeo e sia ancorata ai principi della democrazia liberale.

Il tema dei diritti comporta anche la necessità di affrontare con decisione una riforma della rappresentanza militare che sappia tendere al massimo l’arco delle potenzialità di questo organismo sino a garantire poteri effettivi agli organismi eletti dal personale militare riconoscendogli il ruolo di parte sociale e quindi un reale potere di contrattazione. Una nuova legge che tenga insieme più democrazia e più responsabilità. Deve inoltre essere garantita la presenza delle donne negli organismi intermedi e soprattutto a livello centrale. Il diritto di informazione e di associazione garantito dalla costituzione deve poter essere esercitato anche dai militari individuando forme e modalità per poterlo legittimamente svolgere. Al personale militare deve essere agevolata nel limiti di una attività che era e rimane speciale, la possibilità di conciliare le esigenze del servizio con quello della vita privata e della propria famiglia.

Dalla collocazione internazionale, le missioni all’estero, alla sicurezza nazionale. Dalle politiche di Bilancio all’industria e all’innovazione, dai “forti doveri” agli altrettanto forti diritti; dagli approvvigionamenti, le macchine, i mezzi alle donne e agli uomini che ne costituiscono il cuore pulsante. Questa è oggi la Difesa italiana. Siamo tuttavia a un passaggio assai delicato in cui i rischi e le difficoltà sembrano prevalere sulle opportunità. Gli sforzi individuali, l’impegno e la passione non bastano più. C’è bisogno di un progetto strutturato e organico per riconoscere alla Difesa, fino in fondo, un ruolo centrale nella vita del Paese. Non so se ci siamo riusciti. Se ci riusciremo. Ma in ogni caso è il nostro forte intento politico.