Le mani libere di Diliberto scompaginano i piani di Bertinotti

Roma. Mercoledì s’era turato il naso a beneficio dei fotografi di Montecitorio, come Indro Montanelli. Ieri, come Gabriele D’Annunzio, ha abbandonato l’aula fremente d’indignazione. Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti italiani, forse involontariamente ha ricalcato due straordinari modelli della destra nazionale. E sebbene nessuno dai banchi dell’opposizione abbia sottolineato il plagio, dai banchi più a sinistra della maggioranza s’è levato più d’un mugugno: “Sleale” e (solo all’orecchio del cronista) “Traditore”. I segretari della Cosa rossa, furenti, si sono parlati e hanno concordato: “Questi colpi di teatro, neanche fosse Berlusconi, ci hanno scocciato”. Diliberto, pressato dalla concorrenza dell’intraprendente Marco Rizzo che minaccia una Cosa iper rossa, dopo aver definito “inutile” la verifica chiesta da Rifondazione, ieri non ha votato alla Camera il ddl sul welfare rompendo il vincolo di fiducia con gli alleati. Così la Cosa rossa, a una settimana dagli stati generali della sinistra unita, va incontro a una crisi. A Diliberto, d’altra parte, non piace l’ipotesi del sistema tedesco tanto desiderato invece da Bertinotti, come pure non piace l’ipotesi d’un partito unico della sinistra. Manuela Palermi, il capogruppo al Senato, non ne fa mistero: “L’attuale legge va benissimo – spiega – basta qualche modifica”. Così ieri l’ex allievo di Armando Cossutta ha pure incontrato Walter Veltroni per poi dichiarare, con fare ammiccante, che “è stato un incontro molto soddisfacente”. Messaggio (indiretto) ricevuto con fastidio dalle parti di Fausto Bertinotti, dove si sospetta la propensione spagnoleggiante del segretario del Pd e dove si teme “una convergenza segreta e trasversale sul referendum”. Dunque sebbene gli ottimisti sostengano che “la Cosa rossa trema ma non crolla” e pur anche vero che, dopo lo schiaffone sul welfare, un battitore libero nell’ala massimalista scombiccherà ulteriormente i piani di Rifondazione comunista.
Infatti il partito di Franco Giordano sta cercando di appianare rapidamente ogni divergenza col governo. Chiede che non gli sia data, almeno dal punto di vista dell’immagine, un’altra bastonata come quella subita mercoledì sul protocollo welfare. Oggetto delle telefonate e degli incontri tra i capigruppo di Palazzo Madama in questi giorni è il decreto sulle espulsioni, varato all’indomani dell’omicidio, a Roma, di Giovanna Reggiani. Ieri l’aula del Senato ha respinto le pregiudiziali di costituzionalità e rinviato la discussione a martedì prossimo. Intanto però fervono le trattative. La questione è semplice e complessa all’unisono. Semplice perché il Prc non ha intenzione di mettere l’esecutivo in difficoltà, almeno non fino a gennaio, mese in cui (più che la propagandata verifica) sarà chiara la consistenza della minaccia referendaria. Complessa perché il governo dovrà accontentare la sinistra (ammorbidendo il testo) senza offrire all’opinione pubblica l’immagine di una retromarcia rispetto al riflesso sarko-decisionista che animò l’esecutivo dopo l’omicidio Reggiani.
L’accordo “di massima” ci sarebbe già e viene definito “ottimo”. Tuttavia le sparate dilibertiane e il proclamato “mani libere” costituirebbero un pensiero per i registi rifondaroli: “Oliviero ha fatto una cavolata -dicono – ora deve rientrare nei ranghi e coordinarsi con noi”. Il che, tradotto, significa: “Si deve aspettare gennaio”. Tuttavia nel Pdci dicono che “gennaio è solo la data in cui la Corte costituzionale si esprimerà sul referendum elettorale. E noi non siamo disponibili a contrattare la politica sociale – concludono – in cambio d’un mero calcolo politico elettorale”. Specie se a loro sfavorevole.