Non è necessario scomodare le figure di Platone o di Machiavelli per discutere dei tempestosi rapporti tra intellettuali, società e potere politico. Lunga è infatti la schiera di filosofi, storici, scrittori, teologi – da Heidegger a Schmitt, da Gentile a Barth, da Sorel a Eliade – che nel Novecento sono stati costretti a confrontarsi, talvolta in forme drammatiche, con il proprio ruolo di intellettuali inseriti nelle più ampie e decisive dinamiche della vita politica legate all’avvento dei totalitarismi, fornendo ad esse risposte diverse in termini di scelta etica e culturale, dalla strenua opposizione alla resistenza silenziosa, dal passivo adeguamento all’evidente appoggio. Tra gli intellettuali che si sono trovati a vivere nelle tempeste del Novecento, cercando di governarle, spicca senz’altro Delio Cantimori, sulla cui opera è da poco apparso il volume Res nostra agitur. Il pensiero di Delio Cantimori (1928-1937) di Patricia Chiantera-Stutte (Edizioni Palomar, pp. 140, euro 15), che presenta anche alcune lettere inedite tra Cantimori, Aldo Capitini e Mario Manlio Rossi. Negli ultimi tempi la figura di Cantimori è stata al centro di un aspro dibattito, originato soprattutto da due importanti convegni organizzati nel 2004 dalla Scuola Normale di Pisa e dalla Luiss di Roma e successivamente sviluppato sulle pagine de il Manifesto (Adriano Prosperi, 30 marzo 2005) e del Corriere della Sera (tra marzo e aprile 2005). Come capita recentemente in Italia, sotto la pressione delle spinte revisioniste (il cui scopo, oltre a essere quello di procurare argomenti per una guerra culturale in grado di attirare consenso alla destra, è spesso cinicamente indirizzato all’occupazione sistematica del dibattito pubblico, che viene così distolto dai reali problemi della vita economica e politica contemporanea), l’oggetto del contendere si è spostato dalla figura di Cantimori alla legittimazione di un «tribunale» che mira a condannare i «cattivi maestri» allo scopo di equiparare entrambi gli «errori» del Novecento (il fascismo e il comunismo), con il chiaro obiettivo di lasciare sul terreno, al riparo dalle macerie della storia, un unico attore della politica: il liberalismo. Nel caso in questione la posta in gioco, nella prospettiva revisionista, è chiara: attraverso la ricostruzione del percorso biografico di Cantimori, è possibile giungere da un lato a una concreta rappresentazione delle similitudini tra fascismo e comunismo (che nello storico romagnolo si sarebbero unite nel «nazional-bolscevismo»); dall’altro lato a ricostruire una fase della egemonia culturale della sinistra in Italia che ha sempre mirato a nascondere e a «silenziare» il fascismo del primo Cantimori (soprattutto grazie al suo avvicinamento «organico» al Pci). Bene ha fatto, allora, Prosperi (contro quasi tutti) a richiamare l’attenzione su almeno due aspetti fondamentali per una seria valutazione del lavoro di uno storico (non solo quello di Cantimori). In primo luogo, ha ricordato come una storiografia poliziesca e scandalistica sia incapace di comprendere che la politicità di una ricerca non passa tanto dalle prese di posizione politiche dell’autore (nel caso specifico, valutate autocriticamente dallo stesso Cantimori), ma dal metodo e dai contenuti della ricerca stessa. In secondo luogo, ha ricordato il valore etico della ricerca della verità – libera da veleni ideologici – alla luce di una fondamentale consapevolezza, quella del divario tra conoscenza e azione.
Alla luce di queste polemiche, è benvenuto il contributo di Patricia Chiantera-Stutte che – senza voler separare in Cantimori l’impegno politico e la tensione etica dal lavoro intellettuale – riporta l’argomentazione allo studio dei testi cantimoriani (sia editi che inediti), delle sue relazioni intellettuali in epoca fascista (da Gentile junior a Capitini) e dei reali contesti storici (soprattutto l’ambiente della Normale di Pisa tra gli anni Venti e Trenta), confrontandosi con la vasta letteratura critica, da Garin a Ciliberto, da Berengo a Prosperi, da Mangoni a Pertici. La prospettiva che il saggio presenta è molto chiara: la concezione politica e intellettuale di Cantimori non è classificabile in base a princìpi statuiti e non si esaurisce nell’apologia dell’ordine esistente, né nel progressivo passaggio (tutt’altro che semplice e indolore) dal fascismo al comunismo perché «l’unico punto fermo nella concezione cantimoriana del lavoro intellettuale è il rifiuto delle generalizzazioni e delle categorie dogmatiche. In questa chiave va letta la sua difesa del metodo filologico».
Proprio attraverso l’elaborazione del metodo filologico inteso allo stesso tempo come strumento di lavoro e come disciplina etica dello studioso, Cantimori sarebbe dunque stato attraversato da un continuo ripensamento critico intorno alla propria posizione politica, anche alla luce degli avvenimenti nazionali e internazionali: lungi dall’individuare una improvvisa «conversione» di Cantimori dal fascismo all’antifascismo (e poi al comunismo, prima dell’abbandono del Pci nel 1956), Chiantera-Stutte rilegge la sua biografia intellettuale sottolineandone le sfumature significative, le fasi di passaggio, i sottili mutamenti e le amare disillusioni per giungere a individuare nella seconda metà degli anni Trenta il definitivo distacco di Cantimori dalla ideologia fascista (sottraendolo così anche all’accusa di opportunismo), un distacco che, tuttavia, non fu apertamente dichiarato. La figura di Cantimori che qui emerge è quindi quella di un intellettuale lacerato dalle questioni irrisolte e dalle contraddizioni innescate dai problemi pratici e teorici, soprattutto il divario tra le classi dirigenti e le masse; il rapporto tra la cultura, l’etica e la politica; il rinnovamento civico, «religioso» e morale del popolo; la relazione controversa tra Stato e nazione. Numerosi sono i temi specifici su cui si sofferma il lavoro di Chiantera-Stutte: tra questi, sembra utile segnalare la specificità eterodossa della concezione fascista di Cantimori (con particolare riguardo alle sue radicali riserve nei confronti del razzismo e dell’irrazionalismo nazista e al crescente scetticismo nei confronti delle tendenze conservatrici e conformistiche del fascismo) e il suo passaggio dagli studi filosofici agli studi storici. Ma importante è che, senza pretese esaustive o dogmatiche, il volume miri a presentare una immagine complessiva di Cantimori, in cui ricerca storica ed elaborazione storiografica non siano separate dal suo travaglio etico-politico e in cui l’analisi delle discontinuità teorico-politiche non getti troppa ombra su quelle che sono state invece le continuità culturali, in primis il recupero della partecipazione politica del popolo alla vita dello Stato. Un esempio chiaro, questo volume, di come sia possibile fare ricerca storica della verità, facendo sberleffi tanto alle ortodossie ammuffite quanto ai revisionismi opportunistici.