Le imprese incassano soldi facendo finta di essere danneggiate

Certo che è in atto un’offensiva classista in Italia. La stanno guidando la Confindustria, Standard&Poor, la cultura e le forze liberiste. E questa offensiva sta ottenendo dei bei risultati.
Vengono ancora intimiditi i vaghi e blandi, come scrive Alfonso Gianni, intenti progressisti del governo, che si spaventa persino di fronte all’ipotesi di riportare la tassa per i grandi ricchi a quel 45% che c’era solo cinque anni fa. Intanto i padroni incassano un bel po’ di soldi facendo finta di essere danneggiati. Infatti, con l’accordo sul Tfr le imprese intascheranno un altro 0,5% medio di riduzione del costo del lavoro, che si aggiunge al 3% del cuneo fiscale. Durante tutto il governo Berlusconi la riduzione del costo del lavoro per le imprese è stata solo di un punto. Eppure sul banco degli accusati sono i sindacati, che hanno il solo torto di non far bene il loro mestiere.

L’accordo sul Tfr è una rappresentazione precisa di questa realtà rovesciata. Se il governo avesse deciso di finanziare la spesa pubblica usando fondi depositati nelle banche da qualche finanziaria, l’Italia sarebbe già stata soggetta a sanzioni internazionali. Se invece i soldi che i lavoratori prestano alle aziende con i loro Tfr vengono spostati in un fondo pubblico per pagare i lavori pubblici, questo viene presentato come un sacrificio delle imprese. I lavoratori prestano i soldi allo stato e le aziende ricevono compensazioni e guadagni.

In questo mondo rovesciato dove chi ci guadagna davvero piange, può sembrare un eccesso di sensibilità chiedere che le lavoratrici e i lavoratori almeno siano consultati per conoscere la loro opinione sulla sorte delle liquidazioni. Invece ciò non accade e così passa un principio molto grave: si possono fare accordi sul salario senza che i diretti interessati abbiano la possibilità di decidere.

Con l’accordo sul Tfr cambia la natura stessa della previdenza integrativa. Essa, come dice la parola, è nata per integrare, migliorare la pensione pubblica. Oggi invece si dice che le giovani generazioni dovranno per forza utilizzare il loro Tfr per compensare la pensione pubblica, perché questa, a causa del sistema introdotto con la riforma Dini, sarà troppo bassa. Una facoltà diventa un obbligo. Ma se la pensione integrativa diventa un’altra cosa, allora i lavoratori dovrebbero ricevere ben altre compensazioni e tutele, visto che comunque rinunciano a una parte del loro salario per trasformarlo in pensione. Invece questo nuovo obbligo viene presentato come un guadagno. Un giovane dovrà spendere il 40% della sua retribuzione per avere una pensione che farà fatica ad arrivare al 60% del suo ultimo stipendio, però sono le imprese che fanno gentili concessioni sul reddito dei lavoratori.

Nel loro antico e mai sopito buon senso, gli operai oggi pensano di essere stati vittime del sequestro del Tfr e in fondo hanno ragione, perché possono solo decidere se accedere ai fondi integrativi oppure finanziare lo Stato. Come ha spiegato più volte Roberto Pizzuti, se davvero il Tfr serve per fare un minimo di pensione decente, allora perché non dare la possibilità di investirlo e garantirlo dentro l’Inps, ma non per finanziare la Tav, bensì per migliorare davvero le pensioni.

Certo una tale ipotesi renderebbe davvero volontaria l’adesione ai fondi pensionistici integrativi. Ma qui c’è l’evidente opposizione congiunta di Confindustria e Sindacato. La prima si capisce bene, la seconda in realtà è priva di spiegazioni che non siano riconducibili alla subalternità verso il liberismo. Infatti l’ideologia dei fondi pensione è quella che alimenta la speculazione finanziaria internazionale. Quella che distrugge posti di lavoro proprio in nome della redditività estrema. Anche in Italia è già così: quasi l’80% del capitale gestito dai fondi integrativi viene investito nei fondi finanziari internazionali e non certo nello sviluppo del Paese.

Si è cambiata dunque la natura del Tfr e quella dei fondi pensionistici integrativi, con un accordo di concertazione che sinora ha escluso il diritto dei lavoratori a sapere e a decidere. Ora si preannuncia lo stesso per le pensioni. Anche qui la discussione è rovesciata rispetto alla realtà. Il governo ha già fatto cassa aumentando i contributi e usando a fini impropri il Tfr, ma invece è proprio il sindacato che nega l’evidenza. Così si prepara una trattativa, alla quale Cgil, Cisl e Uil si sono già formalmente impegnate, ancora una volta senza chiedere il parere ai diretti interessati, e nella quale le casse vuote dello Stato pretenderanno altri sacrifici.

Per giustificare l’accordo sul Tfr si è detto che le pensioni dei giovani saranno troppo basse, ora però si vogliono tagliare i coefficienti di calcolo per ridurle ancora. Ricominciano le grida governative per l’innalzamento dell’età pensionabile e magari si rispolvera la vecchia favola dei lavori usuranti. E’ bene sottolineare che non è casuale che questa definizione inquadri il buco nero della riforma Dini. Già allora si operò con ipocrisia e superficialità e infatti ogni volta che si prova a definire che cosa è un lavoro usurante ci si ritrova nel mare magno delle chiacchiere.

Sentiamo esponenti del governo spiegare che un professore universitario o un manager non possono andare in pensione a 57 anni. Non ci vanno già oggi, anche se in qualche caso sarebbe utile per il Paese. Chi fa un lavoro privilegiato non va in pensione presto, chi fa lavoro duro, ed è la grande maggioranza, vede l’allungamento dell’età lavorativa come una condanna, che diventa beffarda quando tutti sanno che in ogni azienda dopo i 50 anni cercano di mandarti via. Si prepara una nuova generazione di precari, coloro che sono troppo vecchi per lavorare e troppo giovani per andare in pensione, e nei prossimi anni litigheranno con figli e nipoti per gli stessi posti supersfruttati.

Ma di tutto questo non si discute, così come è avvenuto per il Tfr, ragioni e torti vengono rovesciati. E non basta. Lo stesso schema si sta già delineando sulla precarietà, sulla flessibilità degli orari, sui contratti nazionali. L’appetito vien mangiando e la Confindustria ha scoperto che le basta piangere un po’ per ottenere quello che vuole. Se non vengono fermati, nel giro di pochi mesi avremo la restaurazione di una concertazione rispetto alla quale quella già negativa degli anni 90 sembrerà socialismo avanzato.

La manifestazione del 4 novembre diventa così un primo appuntamento per provare a riportare nella concreta dura realtà del lavoro quel confronto politico-sociale che oggi vaga nei cieli del profitto che piange.