Le guerre sciagurate

Giorgio Rochat è uno studioso di specie particolare, «uno strano fenomeno», dice lui. Sessantanove anni, professore di Storia contemporanea ormai prossimo alla pensione, da sempre si occupa di storia militare, «scontentando sia gli storici che i militari». I primi gli rimproverano la febbre patriottica, troppo ardore per le forze armate. Gli altri lo criticano per ragioni inverse, imputandogli un eccesso di severità verso gli alti comandi. «Per anni, in alcuni ambienti militari, sono stato guardato con sospetto: per loro ero un nemico della patria». Tuttora non sempre lo invitano ai convegni, ma di questo preferisce non parlare. I suoi libri fondamentali, concentrati sulla storia italiana dall’ Unità alla seconda guerra mondiale, hanno rovesciato il cannocchiale su soldati e ufficiali nei campi di battaglia: non più pedine sullo scacchiere, come tradizionalmente li osserva la storiografia militare tradizionale, ma uomini in carne ed ossa; e dunque non più solo morti, ma anche malati, frequentatori di bordelli, cappellani militari. Se gli domandi da dove provenga questa inclinazione alle mostrine, risponde: «Nessuna spiegazione logica né famigliari in divisa: sarà per un certo piglio autoritario, come dice mia moglie». Cominciò prestissimo, divoratore di poderosi saggi bellici. Poi nei primi anni Sessanta l’ incontro con Ferruccio Parri, che lo orientò verso la politica militare del fascismo. Questo nuovo volume, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’ impero di Etiopia alla disfatta (Einaudi, pagg. 462, euro 28,00), è una summa degli interessi storiografici di Rochat, che per un quarantennio ha legato il suo nome all’ Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione di Milano. Queste guerre, lei sostiene, sono state in buona parte dimenticate. «Dopo la seconda guerra mondiale, per molti decenni, sono stati rimossi gli aspetti più imbarazzanti del regime fascista. Tra questi l’ Impero e le sconfitte militari fino al 1943. La serie di Stati cui il governo italiano dichiarò guerra tra il 1935 e il 1941 è impressionante: Etiopia, Spagna, Albania, Gran Bretagna, Francia, Grecia, Jugoslavia, Unione Sovietica, Stati Uniti. Tutte guerre di aggressione per larga parte oscurate. E anche poco studiate». Una rimozione che incide tuttora. «Non è un caso che anche di recente nel dibattito pubblico siano prevalse interpretazioni di Mussolini benevole e assolutorie: come se la guerra mondiale fosse una sciagura sostanzialmente estranea alla politica mussoliniana. Si dimentica che il duce era anche il ministro della guerra. Il supremo capo militare. Non è omissione da poco». Lei però non se la prende soltanto con il revisionismo mediatico degli ultimi anni. Attribuisce precise responsabilità anche ai suoi colleghi storici. «Registro un fatto inopinabile. La fioritura di studi anche critici sul fascismo non s’ è estesa alle sue guerre, tranne parziali ricostruzioni. Il biografo Renzo De Felice, in una monumentale opera di migliaia di pagine, omette di trascrivere gli ordini di rappresaglia firmati da Mussolini nella repressione della resistenza libica e poi abissina. Né fa riferimento all’ uso di gas da parte delle nostre truppe. Ma non voglio infierire su De Felice: la distrazione sulle responsabilità militari del duce contagia un po’ tutti gli storici, a destra come a sinistra». Chi altro? «Prendiamo i recenti studi pur pregevoli sul fascismo di Alberto De Bernardi, Patrizia Dogliani e di Salvatore Lupo: si occupano dell’ aggressione in Etiopia nel quadro della politica interna e internazionale, trascurando però la brutalità della guerra. Non è un caso che l’ unico che abbia scritto un libro sulle guerre del fascismo sia un giornalista: il lavoro di Giorgio Bocca risale a trentacinque anni fa». Secondo lei perché? «Per una ragione antica: lo storico italiano si ritrae davanti alle questioni militari. Le tiene distanti, perché specialistiche o troppo difficili. O perché portatrici di seduzioni nazional-patriottiche. Confesso che mi sento osservato dai colleghi come uno strano fenomeno. In realtà non sono né un pacifista né un militarista. Combatto da sempre contro questa ghettizzazione degli storici militari, che è un tratto della nostra cultura novecentesca. La conseguenza di questa estraneità è che lo studio delle guerre del fascismo per diversi decenni è stato delegato alle forze armate, quindi politicamente neutralizzate». Lei in questo volume compone in una ricostruzione organica otto anni di guerre, finora affidati a una memoria frammentata. Come cambia la prospettiva? «Emerge con evidenza un aspetto non sufficientemente valorizzato: l’ enorme divaricazione tra la propaganda fascista nel segno della potenza militare, della gloria armata, del sogno imperiale e la sostanziale fragilità del regime, incapace di mobilitare realmente le energie nazionali. Forte con i deboli e debolissimo con i potenti: questo era Mussolini, che non riuscì mai a incidere sull’ industria bellica. Non è curioso che grandi gruppi come Fiat o Ansaldo non furono in grado di produrre carri armati decenti? Un confronto con l’ Italietta della prima guerra mondiale è distruttivo per l’ Italia fascista». Lei dipinge un paese assolutamente impreparato sul piano militare. «Sì, dal 1935 s’ accentua la forbice tra la politica di provocazioni e un’ attrezzatura militare di basso livello. Dietro gli slogan bellici sguaiatamente gridati, non c’ era niente. L’ Italia non partecipa al colossale riarmo europeo tra il 1936 e il 1939 perché il duce investe tutte le risorse disponibili in Etiopia: una guerra assai costosa, che continua contro la resistenza abissina. Più i costi per la valorizzazione dell’ Impero, oltre quelli dell’ intervento in Spagna. Spese enormi, ma ben poco studiate». Le sue pagine tratteggiano un Mussolini indifferente alle questioni militari: un’ immagine distante dall’ iconografia littoria del duce con l’ elmetto. «Il capo del fascismo, che pure cumula tutte le cariche e le responsabilità, non prepara mai la guerra di conquista. Provvede, questo sì, ad annunciarla: con squilli di tromba e gran cassa. Poi niente. Il fatto è che si disinteressa totalmente delle forze armate: ne rispetta l’ autonomia interna e soprattutto chiede un appoggio alla sua propaganda bellicosa. Ma prende da solo tutte le grandi decisioni: senza avere mai una strategia di lungo e medio periodo». Lei appare severo con gli alti comandi e gran parte degli ufficiali, solidale invece con il soldato. «Una volta chiesi al mio amico Nuto Revelli: “Ma dimmi la verità, come erano in realtà i nostri ragazzi?” E lui, non certo sospettabile di nazionalismo, mi rispondeva che la guerra era sbagliata, ma i soldati italiani i migliori del mondo. “Non esagerare!”, replicavo. E lui: “In relazione a quel che avevano…”. Quel che mi preme sottolineare è il cattivo funzionamento della macchina bellica, segnata da una cultura rigida e superata, da alti comandi pletorici e inefficienti, da ufficiali poco selezionati. Ho invece una difficile e sofferta comprensione per i soldati, coinvolti in una guerra che non sentivano». Si dice che gli italiani non sappiano combattere. «Non esistono popoli guerrieri e popoli non guerrieri. Tutto dipende dalla carica ideale che chi comanda riesce a trasmettere. La verità è semplice: il regime fascista non riuscì a fare la guerra, e ne rimase travolto. Tra il 1940 e il 1943 Mussolini, pur disponendo di una grandiosa macchina propagandistica, non riuscì a convincere gli italiani che la sua guerra era giusta e necessaria. Non riuscì a motivare i suoi soldati, né a dargli armi decenti o equipaggiamenti adeguati. Per non parlare del rancio: circolavano pentole del 1853. Niente era stato pianificato. Parlavamo di “conflitto lampo”, ma non avevamo una “cucina mobile”. Potevamo vincere una guerra?». Le guerre italiane è il titolo del suo lavoro. In realtà furono le guerre di Mussolini. «Sì, ma furono combattute e pagate da tutti gli italiani, anche da quelli che non credevano nel duce. E di questo oggi possiamo chiedergliene conto». In sostanza la guerra mondiale fu la dimostrazione del fallimento fascista. «Sì, portò alla luce i limiti e gli equivoci su cui si fondava il regime. Un consenso plebiscitario, ma superficiale: dov’ è l’ uomo nuovo della rivoluzione fascista? Una dittatura forte con gli oppositori, ma incapace di imporsi agli industriali. Una politica estera fatta di proclami e grandi gesti, ma senza alternative al vassallaggio verso la Germania hitleriana. Gli studiosi del regime dovrebbero tenere più conto di questo fallimento».