Le false promesse del cavaliere e il paradosso economico italiano

Non essendo in grado di mantenere gli impegni solennemente presi da lui stesso di fronte agli italiani, il Presidente del Consiglio ora cambia tattica e continua ad assumere impegni, ma stavolta per conto di chi verrà dopo di lui. Già era accaduto con la vicenda dell’Irap, la cui tanto strombazzata riduzione è stata posticipata agli anni futuri. Ieri è accaduto di nuovo allorché, dopo un vertice di maggioranza, Berlusconi ha annunciato che l’aggiustamento dei conti pubblici per un ammontare complessivo di 20 miliardi di euro, richiesto dalla Commissione europea, avverrà senza problemi…ma nel 2006 e nel 2007.
Ora, a parte la sciocca furbizia del millantato credito, l’esclusione di immediate manovre correttive potrebbe anche avere un senso se nel frattempo il Governo adottasse una terapia d’urto per dare una scossa all’economia italiana ormai agonizzante. Malauguratamente così non è perché la politica economica continuerà lungo le strade già note e fallimentari. D’altra parte, di fronte ai dati sempre più allarmanti sul declino economico nel nostro Paese, il Presidente del Consiglio non si è mai scomposto e ha continuato a ripetere con ostentata tranquillità che, nonostante la prolungata recessione, comunque l’Italia è un Paese ricco e negli anni del suo regno lo è diventato ancor di più. Ed in effetti, la ricchezza netta posseduta dalle famiglie italiane è più elevata rispetto a quella delle famiglie americane, francesi o tedesche. Se cinque anni fa una famiglia italiana possedeva in media un patrimonio netto pari a 8 volte il reddito disponibile, nel 2004 è arrivata a possederne quasi 10 volte. Negli USA e in Germania tale rapporto è di appena 5 volte, in Francia di 6 e nel Regno Unito di 7. Eppure lo stato dell’economia in tutti questi Paesi è indiscutibilmente più florido del nostro. Come spiegare questo apparente paradosso?

Per prima cosa occorre sapere che la ricchezza netta è data dalla differenza tra il patrimonio e il debito delle famiglie. L’aumento dello stock di ricchezza può quindi essere generato o da un accumulo di risorse o da una riduzione dell’indebitamento. In una situazione di crisi economica e di sfiducia nel futuro le famiglie adottano per motivi precauzionali entrambi i comportamenti: risparmiano di più e si indebitano di meno. Ma, come ci ha spiegato il vecchio Keynes, in una condizione di sottoccupazione l’aumento del risparmio aggrava la contrazione del reddito perché costituisce il semplice riflesso contabile della riduzione dei consumi e degli investimenti. Non c’è nulla di virtuoso, quindi, nell’accumulare tesori. In secondo luogo, la ricchezza delle famiglie italiane è composta per circa un terzo da attività finanziarie e per la parte rimanente da attività reali, in massima parte immobiliari. Il loro incremento negli ultimi anni è stato causato da un lievitazione del loro valore e non della loro quantità, cioè è in gran parte spiegabile con l’aumento dei prezzi di mercato dei titoli e degli immobili posseduti. Infatti, la crescita in valore delle attività finanziarie e reali è una conseguenza automatica della riduzione dei tassi di interesse nel frattempo intervenuta, accompagnata da una vivace bolla speculativa immobiliare. In altre parole, all’aumento della ricchezza non corrisponde un analogo incremento dei beni posseduti. Le famiglie italiane posseggono materialmente le stesse proprietà di qualche anno fa ma sembrano più ricche perché nel frattempo sono aumentati i loro prezzi. Se i possessori di ricchezza decidessero improvvisamente di vendere i loro patrimoni, o se i tassi di interesse dovessero aumentare, il valore della ricchezza si svaluterebbe di molto. Possiamo quindi concludere che, in termini aggregati, l’arricchimento delle famiglie rappresenta solo un’illusione.

In terzo luogo, in questi anni l’aumento fittizio della ricchezza è stato accompagnato da una sua estrema concentrazione. Ad essere diventati più ricchi sono stati quei pochi che erano già ricchi, mentre la grande maggioranza della popolazione ha visto diminuire, insieme al potere d’acquisto del proprio reddito, anche la quantità dei piccoli patrimoni posseduti, molto spesso alienati per tirare avanti.

Riassumendo quindi abbiamo scoperto che: a) le famiglie risparmiano di più perché sono pessimiste e sfiduciate; b) l’aumento statistico della ricchezza è in gran parte un fenomeno cartaceo e non reale; c) la distribuzione della ricchezza è diventata molto più diseguale. Tutto ciò non rassicura affatto sullo stato attuale della nostra economia. Infatti, la vera ricchezza di un Paese non è data dal valore dei patrimoni posseduti, ma dalla capacità di generare reddito, di utilizzare le risorse a disposizione per produrre nuovi beni e nuovi servizi o per migliorarne la qualità sociale e ambientale. La patrimonializzazione in atto dell’economia italiana è un fattore di crisi economica, di degrado morale e di disgregazione sociale.

Per evitare che ciò accada c’è una sola strada possibile, quella di adottare una politica economica che penalizzi il semplice possesso di ricchezza finanziaria o immobiliare in modo da forzare le famiglie e le imprese ad un uso produttivo delle risorse accumulate. In passato esisteva un meccanismo apparentemente automatico, che produceva da solo questi effetti, ed era la spirale svalutazione-inflazione. Oggi, che questo meccanismo non c’è più, occorrono scelte politiche coerenti e conseguenti. Il mezzo più diretto per fare ciò è il fisco, attraverso un aumento del prelievo sulla ricchezza ed una riduzione sul reddito derivante dalla produzione, a cominciare dai salari. Un altro strumento è quello della canalizzazione del risparmio verso investimenti produttivi capaci di generare reddito e quando, come accade ora, i soggetti privati non lo vogliono fare perché hanno paura del futuro, tocca allo Stato farlo, mettendo mano ad un nuovo programma di intervento pubblico nell’economia. Se tutto questo non avverrà, non illudiamoci di poter vivere a lungo di sole illusioni.