«Di operai non si parla, così come non si parla dell´Africa, del Sud America, se non quando ci va in visita ufficiale qualche presidente. Si parla forse del comunismo cinese? No, eppure i comunisti cinesi sono oltre un miliardo e mezzo, più dei cattolici e dei musulmani. Gli operai ci sono, come le fabbriche. Solo che non esiste il bisogno di parlarne». Ascanio Celestini è ormai abituato alle diverse definizioni del suo «mestiere»: cantastorie, affabulatore, evangelista metropolitano, socio fondatore del teatro d´inchiesta. Dall´armadio ha tirato fuori uno scheletro, una figura dimenticata, quella dell´intellettuale organico, che segue un avvenimento dall´interno e poi lo racconta.
È successo così per Pecora Nera, viaggio tra manicomi e schizofrenia del quotidiano; è successo anche per Fabbrica, spettacolo del 2002, libro più cd audio per Donzelli che, nell´edizione 2007 (pagg. 91, euro 19,90) ha una nuova prefazione dell´autore.
Celestini, perché insiste con le fabbriche e scrive: «Adesso le aziende sono apparizioni che si intravedono tra un condominio e un centro commerciale. Adesso si può tornare allo schiavismo a cottimo»?
«Sotto casa mia, davanti, dietro, ci sono lavori in corso: sempre. Costruiscono palazzine. Sono quasi tutti rumeni o polacchi. Ogni anno ci sono migliaia di morti nei cantieri, gente che stava lì da chissà quanto tempo e che però ufficialmente risulta assunta proprio il giorno prima di morire. Non è strano?».
Vuol dire che è un argomento poco interessante?
«Ormai ci si interessa solo di forze dell´ordine. Con tutto il rispetto. C´è stata pure una sfilata di moda. Altro che operai. Il nostro è uno Stato fondato sulla militarizzazione interna ed esterna. E il sostegno arriva da sinistra e da destra per guerre di ogni tipo. Come la seconda guerra del Golfo, nata da un´idea invisibile: inesistenti armi chimiche. O i bombardamenti umanitari nella ex Jugoslavia, le partecipazioni in Somalia, la non partecipazione in Ruanda. Dopo la guerra fredda si è rotto il giocattolo. È stato più facile trovare un nemico fasullo: il terrorismo. Il terrorista è inafferrabile, puoi fare una guerra contro tutto e contro tutti. In una situazione di questo tipo non parli di operai. A proposito, qualcuno ha visto una fiction sulle fabbriche o sul ruolo dei precari?».
Nella Prefazione dice: «In due anni ho raccolto storie sul lavoro che incominciava a non esistere più».
«Quando ho cominciato a occuparmi di fabbriche, sono andato a Terni, la patria delle acciaierie. Terni è stata costruita apposta per portare l´acciaio: non troppo lontana da Roma ma nemmeno troppo vicina perché con il Vaticano la cultura operaia non va d´accordo. Nel 1953 ci sono stati 2000 licenziamenti. Sembrava la fine. Poi, ecco la ripresa, la sperimentazione: il lamierino magnetico, un acciaio ad altissima conduzione che si «inventa» a Terni. La privatizzazione è un problema recente; la gente a 50 anni è costretta ad andare in pensione. La cordata di industriali è grande, ci sono i Riva, i Falk, i Marcegaglia, ci sono anche i Krupp ma in minoranza. Gli italiani escono e resta la Thyssenkrupp che il lamierino se lo porta in Germania, in Francia, in Messico, in India. In Cina. Preoccupazione? Troppo poca».
Che differenza c´è tra i suoi racconti e i quelli di Ottiero Ottieri o di Luciano Bianciardi?
«Quando ho affrontato Fabbrica avevo appena letto I minatori della Maremma di Bianciardi; è un´inchiesta-diario vecchio stile. Lo scrittore commenta, è coinvolto. Mi piacerebbe sapere che cosa avrebbe scritto Bianciardi dei precari, degli immigrati, degli interinali, dei Co. co. co.».
Il suo ultimo monologo si intitola Appunti per un film sulla lotta di classe; i protagonisti sono le «voci» dei call center. Loro ce l´hanno una coscienza di classe?
«Le persone non sentono più di appartenere ad una classe ma ad un target; sono classificabili per quello che consumano, non per quello che producono. I call center non parlano mai di quello che fanno, è un mondo a parte, chiuso, senza identità. Il contadino parlava una sua lingua che si contrapponeva a quella del padrone e creava uno scontro anche culturale. Nei call center chi è il padrone?».