Paolo Ferrero scrive che gli eventi dell’89-91 – la dissoluzione dell’URSS e del socialismo reale nell’Europa centro-orientale e balcanica che la caduta del muro di Berlino simboleggia – “è stato un fatto positivo e necessario, da festeggiare”. Anche se poi tale caduta non ha dato luogo a quel “nuovo inizio” della storia dell’umanità che gli apologeti capitalisti e la sinistra ad essi subalterna allora profetizzavano, ma ha aperto la strada alle peggiori infamie del capitalismo neoliberista: privatizzazioni violente e selvagge; smantellamento dei sistemi di difesa sociale; colonizzazione dell’economia, della società e dei corpi stessi, di donne immiserite, umiliate e offese, in fuga dall’est “liberato” ridotte a “badanti” e prostitute; il dilagare di aggressioni imperialiste una volta venuto meno il contrappeso dell’URSS; il peggioramento generalizzato delle condizioni sociali e politiche dei lavoratori all’Ovest. Come si può definire l’89 se non una pesantissima controrivoluzione sociale, politica, culturale?
Per questo, non possiamo assolutamente associarci ai festeggiamenti del 9 novembre. L’89 non è una nostra festa, è la festa della controrivoluzione capitalista nella sua espressione più crudele del neoliberismo, è la festa dei vincitori occidentali della guerra fredda.
L’89 è una chiara, durissima sconfitta del movimento operaio e comunista e più in generale del movimento di emancipazione dei popoli. Che va apertamente riconosciuta e indagata in tutti i suoi aspetti. Da quando in qua masochisticamente si è presa l’abitudine di festeggiare le sconfitte?
Ma, dice Ferrero, quella sconfitta era necessaria e inevitabile, il “socialismo reale” “così non poteva andare avanti e così non si andava da nessuna parte”.
In questo approccio vi è molto determinismo e giustificazionismo storico: non poteva che andare così, ed era giusto che andasse così (e quindi festeggiamo che sia così…). Se accettiamo questa impostazione dovremmo “festeggiare” allora anche lo sfascio della II Internazionale i cui principali partiti nel 1914 votarono i crediti di guerra, e ritenere la guerra inevitabile?
Ci fa fare un passo avanti questo approccio nell’elaborazione di una strategia comunista per il XXI secolo? Ci aiuta a comprendere cioè quali processi portano alla sconfitta dell’89 per poter apprendere da essi come movimento operaio organizzato?
Il limite maggiore dell’impostazione dell’articolo di Ferrero è nella sua parziale subalternità all’impostazione borghese, nell’accogliere in modo semplificatorio la tesi che quei regimi hanno fallito per mancanza di libertà, una libertà sans phrase, senza specificazioni e determinazioni storiche. Privilegiando in termini assoluti la questione della “libertà”, si rimuovono le diverse altre questioni che sono alla base della sconfitta della transizione socialista: si rinuncia ad indagare in termini marxisti sulla struttura socio-economica e sulla sovrastruttura politica delle società del “socialismo reale”, sul ritardo nello sviluppo delle forze produttive, l’organizzazione del lavoro, sul ruolo della direzione politica dei partiti comunisti, sulle ragioni del distacco dirigenti/diretti, sulle ideologie politiche e la cultura delle masse.
E si fa di tutt’erba un fascio, si buttano in un unico calderone tutti i paesi dell’est come fossero un blocco indifferenziato: a Praga non c’erano le stesse condizioni di Budapest o di Varsavia. Occorrerebbe sapere ad esempio che la crisi economica polacca negli anni 70-80 (che crea il terreno favorevole per la propaganda di Solidarnosc lautamente finanziata dai centri occidentali, dalla Cisl al Vaticano), è dovuta alla crescente dipendenza dai prestiti occidentali e l’Ungheria cade nella spirale del debito e deve adottare le dure ricette antisociali del FMI, che erodono fortemente il consenso sociale della popolazione (Chossudovski, Globalizzazione della povertà).
Occorrerebbe fare i conti con la storia di queste società, con i processi reali che ivi intervengono, con le contraddizioni che comporta un processo di profonda e radicale trasformazione sociale (per diverse società si trattò di passare da un regime semifeudale ad una società industriale), al modo in cui vennero affrontate o ignorate o non risolte.
Tutto invece viene terribilmente semplificato dietro l’ideologia – in senso marxiano qui di falsa coscienza – della “libertà”. Ritorniamo al Croce degli anni 30, così articolatamente criticato da Gramsci nei Quaderni, alla storia d’Europa come storia della libertà, un Croce tutt’al più corretto dalla sua ala sinistra liberalsocialista di “Giustizia e libertà” (ma è un caso che questo binomio ricorra più volte nello stesso articolo?) che certo fu un alleato importante nella lotta antifascista, ma era cosa profondamente diversa dal comunismo, che pensa in termini di rivoluzione nei rapporti sociali di produzione e di proprietà,.
Erano inevitabili, segnate indelebilmente dal percorso della storia. le controrivoluzioni dell’89? O il loro sviluppo ed esito non dipese molto, in maniera forse – forse, perché è una ricerca ancora aperta – dalla direzione politica dei partiti comunisti? Ferrero è tranchant, non si pone neppure una simile questione. Ma in altri continenti del pianeta, a Cuba, nella Repubblica popolare cinese (che al gorbaciovismo resistette al prezzo di una dura e tragica prova di forza a piazza Tien an men), il movimento dell’89 non ebbe l’esito catastrofico della controrivoluzione. Il PC cubano non si fa allettare dalle sirene gorbacioviane e sa resistere ai loro ricatti, non smobilita, non si dissolve, affronta un durissimo periodo speciale di riconversione e ristrutturazione della economia, e grazie a questa eroica resistenza, Cuba è ancora lì, una bandiera della rivoluzione piantata nel centro dell’impero USA, a fare da battistrada e retrovia ad un tempo per uno straordinario processo di emancipazione sociale e politica in America Latina, dal Venezuela di Chavez alla Bolivia di Morales.
Se proprio un 89 vogliamo festeggiare, festeggiamo la resistenza dell’Avana e non la caduta di Berlino!