L’esercito ferma le manifestazioni Quindicimila soldati impediscono l’afflussso degli ultranazionalisti verso gli insediamenti di Gaza. Ci riproveranno domenica. Per vent’anni i governi israeliani hanno sostenuto il movimento coloniale con ogni sorta di privilegi e facilitazioni. Un sociologo ne ha calcolato il costo in ventritre miliardi di dollari
INVIATO A GAZA
Le manifestazioni contro lo sgombero degli insediamenti ebraici nella Striscia di Gaza e nel nord della Cisgiordania riprenderanno domenica. Di fronte allo schieramento di 15 mila poliziotti e soldati, gli organizzatori delle proteste hanno gettato la spugna, anche se solo per qualche giorno. A Ofakim, nel sud di Israele, sono rimaste solo alcune centinaia di manifestanti intenzionati, almeno a parole, a marciare verso Gaza per impedire l’evacuazione delle 21 colonie ebraiche. «Solo se la nostra fede rimarrà incrollabile la malvagia decisione del governo sarà annullata», ha detto due giorni fa Avner Shimoni, uno dei leader anti-ritiro, rivolgendosi a migliaia di attivisti di destra e coloni riuniti a Ofakim. Nel vicino moshav di Talmei Yossef, quasi al confine con l’Egitto e al deserto del Negev, l’agricoltore Avi Leman, scuote la testa ascoltando alla radio le parole di Shimoni. «Questa gente ha perduto la testa – dice allargando le braccia -. Ha ricattato, per oltre 20 anni, governi e partiti politici ma ora crea anche problemi di ordine pubblico, di sicurezza». Avi non è un amico dei palestinesi. Si definisce un cittadino israeliano laico, preoccupato dell’influenza del nazionalismo religioso nella vita del paese. «I coloni e i loro potenti sostenitori ¡ aggiunge ¡hanno assorbito risorse immense che potevano essere redistribuite tra tutti i cittadini israeliani o utilizzate per realizzare infrastrutture progetti utili a tutta la nazione. Nuove strade, ad esempio, o una rete ferroviaria decente». Avi è nato e cresciuto ad Haifa. La moglie, Jane, viene dalla Gran Bretagna e assieme hanno lavorato la terra e poi costruito le serre che oggi danno da vivere a tutta famiglia, di cui fanno parte anche due figlie, entrambe studentesse universitarie in Australia. «Questo moshav (cooperativa agricola di piccoli proprietari, ndr) negli ultimi 25 anni non è cresciuto di un centimetro ¡interviene Jane ¡, gli alberi, i giardini, le stradine interne, alcune infrastrutture e molte altre cose sono frutto del lavoro di coloro che vi abitano e dell’investimento dei nostri soldi».
Lavoro e sudore che si è visto solo in minima parte a Newe Dekalim e negli altri insediamenti ebraici di Gaza dove gli aiuti e i finanziamenti governativi hanno reso facile la vita dei coloni. Yoav Klein, come altri abitanti del Talme Yossef, viene da Yamit, la più famosa delle colonie costruite da Israele nel Sinai durante l’occupazione della penisola egiziana. Non si considera un ex colono e non ha simpatia per quelli che ora dovranno lasciare Newe Dekalim. «Dicono che Yamit e Newe Dekalim hanno avuto lo stesso destino ma non è vero. A Yamit eravamo tutti laici e sapevamo bene che quella non era terra nostra e che presto saremo tornati in Israele». Yoav ricorda che tutti gli abitanti di Yamit andarono via molto prima dell’aprile del 1982, data ufficiale del ritiro. «Io ero in Israele già da dieci mesi e quelli che provarono a resistere all’evacuazione della colonia in realtà erano estremisti di destra giunti lì solo per fare teatro, proprio come accade in questi giorni». Anch’egli produttore di fiori, Yoav denuncia la grave situazione di Ofakim, Sderot, Netivot e altri piccoli centri abitati che non hanno infrastrutture sufficienti e dove la popolazione attiva deve fare i conti con i livelli di disoccupazione più elevati di Israele. «Di Ofakim dicono che la gente è tutta dalla parte dei coloni e contro il ritiro ¡ afferma ¡, certo gli abitanti più religiosi contestano Sharon ma tanti altri guardano con rabbia ed invidia ai cospicui risarcimenti che lo Stato garantisce ai coloni che dovranno lasciare Gaza».
Negli ultimi venti anni Israele ha avuto un vertiginoso sviluppo e le statistiche economiche lo pongono vicino ai paesi dell’Unione europea. Questo balzo in avanti è tuttavia avvenuto a scapito dello stato sociale, attraverso la privatizzazione di gran parte delle imprese pubbliche e grazie il contenimento dell’inflazione con elevati tassi d’interesse. Politiche svolte anche dai laburisti e non solo dai governi di destra che hanno allargato la forbice tra ricchi e poveri. A pagare i costi più alti del pasaggio da un’economia di vaga ispirazione socialista dei primi anni di vita del paese al liberismo sfrenato, sono stati i centri abitati più periferici, le cosiddette «città di sviluppo» popolate in maggioranza da mizrachim, ebrei giunti dai paesi arabi. Dimenticate dai partiti della sinistra, quello laburista in testa, queste località rappresentano non solo serbatoi di malcontento ma anche di voti per la destra ultranazionalista che è riuscita abilmente a indirizzare il malcontento sociale verso rivendicazioni territoriali di ispirazione religiosa e contro i palestinesi. Così mentre il nazionalismo ha riempito la bocca dei disoccupati di Netivot, Sderot e altre decine di centri abitati del Negev lontani dalla vita spumeggiante di Tel Aviv e delle città sulla costa mediterranea, i coloni nel frattempo hanno ricevuto case a prezzi stracciati, sussidi di ogni genere, la protezione (costosissima) dell’esercito, per occupare le terre palestinesi.
In un suo libro recente (Il prezzo dell’occupazione) il sociologo Shlomo Swirski, ha calcolato in almeno 23 miliardi di dollari il costo della colonizzazione dei Territori occupati. Nel 2005 i coloni, pur rappresentando solo il 4% della popolazione israeliana, hanno ricevuto il 17% del budget governativo. Quelli di Gaza, per lasciare le loro case, avranno accesso a sostanziosi risarcimenti che partono da una base minima di oltre 150mila dollari. Non solo ma hanno a disposizione tre opzioni per trovare un nuovo alloggio: sostare per un periodo di due anni nelle case mobili che il governo sta allestendo a Nitzan, sulla costa mediterranea tra Ashqelon e Ashdod, pagando affitti contenuti (non oltre i 500 dollari al mese mentre nelle città vicine sono almeno il doppio); vivere negli appartamenti presi in affitto dal governo ad Ashdod, Ashqelon e altre città del sud del paese; incassare subito l’intero risarcimento e comprare una casa in un’altra zona, magari in una colonia ebraica della Cisgiordania. «Ma quale resistenza ad oltranza, quelli di Newe Dekalim si stanno precipitando qui ¡spiega Arik Eldar, un responsabile a Nitzan della Amigur, una società della Agenzia ebraica ¡, fino alla scorsa settimana le nostre case mobili erano vuote. Ora in tre giorni abbiamo ricevuto 104 richieste e prevediamo che entro una settimana tutte e 350 abitazioni saranno prenotate. Con un risarcimento tanto generoso e una casa già pronta, l’ideologia conta poco anche per i coloni».